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Testi del Vedanta, dello Yoga e della tradizione Hindu.

Dal 2001 Visionaire.org è scritto, illustrato, pubblicato da Beatrice Polidori (Udai Nath)


1.      "NA-KOJA-ABAD"  O L’ “OTTAVO CLIMA”.

Ho appena nominato l’utopia. E’ strano, ma anche un esempio decisivo, che i nostri autori usino un termine persiano che sembra esserne l’esatto calco linguistico: Na-kojd-Abad, la “Terra di Nessundove”. Eppure si tratta di qualcosa di totalmente differente da un’utopia.

Leggiamo quindi i bellissimi racconti persiani  – insieme fiabe visionarie e temi di iniziazione – di Sohravardi, il giovane Shaykh che, nel dodicesimo secolo fu il “restauratore della teosofia dell’antica Persia” nell’Iran islamico. All’inizio di ogni storia, il visionario si trova alla presenza di una figura soprannaturale di straordinaria bellezza, a cui il visionario chiede chi sia e da dove venga. Questi racconti narrano essenzialmente l’esperienza dello gnostico, vissuta come la personale vicenda dello Straniero, il prigioniero che aspira a ritornare a casa.

Al principio della storia che Sohravardi intitola “L’Angelo Rosso” il prigioniero, sfuggito alla sorveglianza dei suoi aguzzini, ovvero temporaneamente lasciato il mondo dell’esperienza sensoriale, si trova nel deserto alla presenza di un essere al quale domanda, poiché vede in lui il fascino dell’adolescente: “Oh giovane! da dove vieni?” e riceve la risposta “Cosa dici? Io sono il primo nato tra i figli del Creatore [in termini gnostici il Protoktistos, il Primo-Creato] e tu mi chiami giovane?”. Questa è l’origine del colore rosso dei suoi abiti: l’apparire di un essere di pura Luce il cui splendore è ridotto, dal mondo sensoriale, nel rosso del crepuscolo. “Provengo da oltre il monte di Qaf… Là eri in origine, e lì ritornerai quando infine ti libererai dai tuoi legami”

La montagna di Qaf è la montagna cosmica costituita, di vetta in vetta, di valle in valle, dalle Sfere celesti che sono racchiuse una nell’altra. Qual è, dunque, la strada che porta al di fuori di essa? Quanto è lunga? “Non importa quanto a lungo camminerai” è detto “arriverai di nuovo al punto di partenza” come la mina del compasso che ritorna allo stesso punto. Ciò implica abbandonare se stessi al fine di conquistare se stessi? Non esattamente. Tra i due, c’è un evento che cambia tutto; il sé stessi che si trova là è quello al di là del monte di Qaf, un sé superiore, un sé “in seconda persona”. Sarà necessario, come Khezr (o Khadir il profeta misterioso, l’eterno viandante) bagnarsi alla Sorgente della Vita. “Colui che ha trovato il significato della Vera Realtà è arrivato alla Sorgente. Quando emerge dalla Sorgente, ha conquistato l’Attitudine che lo rende come un balsamo, di cui se verserai una sola goccia nel cavo della mano, tenendola rivolta al sole, ed essa passerà sul dorso della mano. Se sei Khezr, passerai anche senza difficoltà attraverso la montagna di Qaf.

Altri due racconti mistici danno un nome a ciò che “al di là delle montagna di Qaf, è il nome che segna la trasformazione dalla montagna cosmica alla montagna psicocosmica, la transizione del cosmo fisico in ciò che costituisce il primo livello dell’universo spirituale. Nel racconto intitolato ‘Il frullo delle ali di Gabriele’ appare nuovamente la figura che Avicenna chiama Hayy ibn Yaqzan (“il Vivente, figlio del Guardiano”) e che, in questo caso, è detta l’Arcangelo Rosso. La domanda d’obbligo viene perciò rivolta e la risposta è la seguente: “Provengo da Na-koja-Abad”. Infine nel racconto intitolato “Vademecum del Fedele d’Amore” (Mu'nis al-'oshshaq), in cui è rappresentata una triade cosmogonia le cui dramatis personae sono, rispettivamente, Bellezza, Amore e Tristezza, la Tristezza appare a Ya'qab piangendo per Giuseppe nella terra di Canaan. Alla domanda: “Quale orizzonte hai attraversato per giungere qui?” viene data la stessa risposta: “Io vengo da Na-koja-Abad”

Na-koja-Abad è uno strano termine. Non si trova in alcun dizionario di persiano e fu coniato, per quanto ne so, dallo stesso Sohravardi, attingendo dal più puro retaggio linguistico persiano. Letteralmente, come ho detto, significa la città, la regione o il territorio (abad) di Nessun-dove (Na-koja). Siamo perciò di fronte ad un termine che, a prima vista, ci appare come l’esatto equivalente del termine ou-topia che, a sua volta, non si trova nei dizionari di greco classico, e fu coniato da Thomas More come nome astratto per designare l’assenza di localizzazione, di qualsiasi sito nello spazio esperibile e verificabile mediante i nostri sensi. Etimologicamente e letteralmente si potrebbe tradurre esattamente Na-koja-Abad con outopia, utopia, eppure rispetto al concetto, all’intenzione e al vero significato io ritengo che sarebbe una traduzione scorretta. Mi sembra, perciò, che sia di fondamentale importanza tentare, almeno, di determinare perché si tratterebbe di una cattiva traduzione.

Si tratta di una precisazione indispensabile, se vogliamo comprendere il significato e le reali implicazioni delle molteplici informazioni sulla topografia esplorata nello stato di visione, lo stato intermedio tra la veglia e il sonno – informazioni che per esempio, tra gli spiritualisti dell’Islam Sciita, riguardano la “terra dell’Imam nascosto”. Precisazione che, portando la nostra attenzione a differenziare una intera regione dell’anima, e quindi un’intera cultura spirituale, ci porta a chiedere: quali condizioni rendono possibile ciò che chiamiamo solitamente utopia e, di conseguenza, l’uomo utopico? Come e perché fa la sua apparizione? Mi domando, infatti, se forme equivalenti si trovino e dove, tra le forme tradizionali del pensiero islamico. Non credo, ad esempio, che quando Farabi, nel decimo secolo, descrive la “Città Perfetta”, o il filosofo Andaluso Ibn Bajja (Avempace), nel dodicesimo secolo, riprende lo stesso tema ne “La Regola del Solitario” – non credo che nessuno di loro contemplasse ciò che oggi chiamiamo un’utopia sociale o politica. Leggerli in questo senso sarebbe, io temo, distoglierli dai propri presupposti e prospettive allo scopo di imporre i nostri, le nostre dimensioni; soprattutto, temo implicherebbe cadere nella confusione tra Città Spirituale e Città immaginaria.

La parola Na-koja-Abad non indica qualcosa di inesistente, privo di dimensione spaziale. La parola persiana abad significa di sicuro una città, una terra coltivata e popolata, dunque qualcosa che possiede un’estensione. Quello che intende Sohravardi con l’essere “al di là del monte Qaf” è quello che per lui e per l’intera tradizione teosofica dell’Islam rappresenta l’insieme delle tre città mistiche di Jabalqa, Jabarsa e Hurqalya. Come indicazione topografica, si afferma precisamente che questa regione inizia “sulla superficie convessa” della Nona Sfera, la Sfera delle Sfere, ovvero la Sfera che include l’intero cosmo. Questo significa che ha inizio nell’esatto momento in cui ci si eleva oltre la Sfera suprema, che definisce tutte le possibili direzioni sul nostro mondo, la “Sfera” cui si riferiscono i punti cardinali del cielo. E’ evidente che quando si è superato il vincolo spaziale, la domanda “dove?” (ubi, koja) perde di significato, quantomeno rispetto alla domanda di orientamento nello spazio sensoriale. Ecco dunque il nome Na-koja-Abad: un luogo al di fuori dello spazio, non “luogo” non contenuto in un luogo, in un topos che permetta di rispondere con un gesto della mano alla domanda “dove?”. Ma quando diciamo “Partire da dove” cosa intendiamo?

Di sicuro non si tratta di un cambiamento della posizione nello spazio, del trasferimento da un luogo a un altro, poiché ciò implica dei luoghi contenuti in un unico spazio omogeneo. Come suggerito dal finale della novella di Sohravardi, con il simbolo della goccia di balsamo esposta al sole sul cavo della mano, si tratta di entrare, passando all’interno e, passando all’interno, ritrovarsi, paradossalmente al di fuori, o nel linguaggio dell’autore, “sulla superficie convessa” della Nona sfera – in altre parole, “al di là del Monte Qaf”. La relazione di cui si parla è essenzialmente quella tra l’esterno, il visibile, l’essoterico (in arabo, zhair), e l’interno, l’invisibile, l’esoterico (in arabo, batin), ovvero il mondo naturale e il mondo spirituale. Partire dal ‘dove’, dall’ubi, è abbandonare l’apparenza esterna o naturale che racchiude le realtà interiori o nascoste, come la mandorla è nascosta nel guscio. Questo passaggio avviene affinché lo Straniero, lo gnostico, ritorni a ‘casa’ – o quantomeno si diriga verso quel ritorno.

Accade però qualcosa di strano: una volta compita la transizione, la realtà che prima era nascosta o interna si rivela d’ora in avanti essere l’involucro, che circonda e contiene ciò che prima era esterno e visibile, poiché con l’interiorizzazione si abbandonata quella realtà esteriore. D’ora in avanti è la realtà spirituale ad avvolgere, circondare e contenere la realtà cosiddetta materiale. Ecco perché la realtà spirituale non è in un ‘dove’. Il ‘dove’ si trova al suo interno. Oppure, meglio, è essa stessa il ‘dove’ di tutte le cose; non può trovarsi perciò in un luogo, non può ricadere sotto la domanda ‘dove?’ – l’ubi riferibile ad un luogo nello spazio sensoriale. Il suo luogo (il suo abad) in relazione a questo è il Na-koja (nessun-dove), perché l’ubi che le appartiene nello spazio sensoriale è l’ubiquo (ovunque). Se abbiamo compreso questo, abbiamo compreso l’essenziale per seguire la topografia delle esperienze visionarie, distinguere i loro significati (cioè direzione e significato, simultaneamente) e un altro aspetto fondamentale, cioè ciò che distingue la percezione spirituale degli individui spirituali (Sohravardi e molti altri) da tutto quello che il vocabolario moderno sussume sotto il senso peggiorativo di creazione, immaginazione, fino a follia utopistica.

Dobbiamo incominciare a distruggere, con tutte le nostre forze, anche a costo di combattere ogni giorno, quello che si chiama il “riflesso agnostico” dell’uomo occidentale, perché ha permesso il divorzio tra pensiero ed essere. Molte recenti teorie traggono origine da questo riflesso, grazie al quale speriamo di sfuggire all’altra realtà - prima che certune esperienze ed evidenze ci portino in essa – e di sfuggirla nel caso in cui segretamente siamo stati soggiogati  dalla sua attrazione, per mezzo delle più ingenue spiegazioni, tranne una: quella che permetterebbe di attribuirle un significato vero alla sua esistenza. Perché ci restituisca questo significato dobbiamo, in ogni caso, avere a disposizione una cosmologia che superi le più stupefacenti informazioni a disposizione delle scienze moderne sull’universo fisico, abbandonandole ad un livello inferiore. Poiché, fintanto che si tratta di questo genere di informazioni, rimaniamo vincolati a “Questo lato del monte Qaf”. Il tratto distintivo della cosmologia tradizionale dei teosofi dell’Islam, per esempio, è che essa si dipana laddove i mondi e gli intramondi “al di là del monte Qaf”, cioè al di là dell’universo fisico, sono collocati su livelli intelligibili di esistenza solo in ragione di un atto d’essere conforme con la propria presenza in quei mondi e, per reciprocità, è per l’armonia con il proprio atto d’essere che quei mondi sono presenti. Quale dimensione, quindi, deve avere questo atto d’essere per essere, o per divenire nel corso delle sue nascite future, il luogo di questi mondi che si trovano fuori dal nostro spazio naturale? E prima di tutto, cosa sono questi mondi?

Posso fare riferimento a pochi testi. Un certo numero di essi si possono trovare tradotti e raccolti nel libro che ho intitolato “Corpo spirituale e terra celeste”. Nel “Libro delle Conversazioni” Sohravardi scrive: “Quando hai imparato dai trattati degli antichi saggi che esiste un mondo dotato di dimensioni e di estensione, diverso dal pleroma delle Intelligenze (cioè, al di sotto di quello delle pure Intelligenze angeliche), e diverso dal mondo governato dagli Spiriti delle Sfere (cioè, un mondo che, pur avendo dimensioni ed estensione, è diverso dal mondo dei fenomeni sensoriali, e superiore ad esso, che include l’universo siderale, i pianeti e le “stelle fisse”), un mondo in cui vi sono innumerevoli città, città tra le quali il Profeta citò Jabalqa e Jabarsa, non precipitarti a definirlo una menzogna, poiché i pellegrini dello spirito possono contemplare quel mondo e trovarvi tutto ciò che si può desiderare”.

Queste poche righe ci mostrano uno schema su cui tutti i nostri filosofi concordano, uno schema che si compone di tre universi, ovvero, di tre categorie di universi. Vi è il nostro mondo fisico sensoriale, che include sia il mondo terreno (governato dalle anime umane) e il mondo siderale (governato dalle Anime delle Sfere); questo è il mondo sensoriale, il mondo dei fenomeni (molk). Vi è il mondo soprasensibile governato dall’Anima o dalle Anime Angeliche, Malakut, in cui si trovano le città mistiche nominate e che incomincia “sulla superficie convessa della Nona Sfera”. Vi è l’universo delle pure Intelligenze Arcangeliche. A questi tre universi corrispondono i tre organi della conoscenza: i sensi, l’immaginazione e l’intelletto, triade a cui corrisponde la triade antropologica: corpo, anima, spirito -  triade che regola la triplice evoluzione dell’uomo, da questo mondo alla resurrezione negli altri mondi.

Osserviamo subito che non si riduce il dilemma di pensiero ed estensione all’interno di uno schema cosmologico e gnoseologico limitato al mondo materiale e della comprensione astratta. Nel mezzo dei due si trova un mondo intermedio, che i nostri autori chiamano 'alam al-mithal, il mondo dell’Immagine, mundus imaginalis: un mondo ontologicamente reale come il mondo dei sensi e dell’intelletto, un mondo che richiede una specifica facoltà percettiva, facoltà che è una funzione cognitiva, un valore noetico, pienamente reale come le facoltà della percezione sensoria o dell’intuizione intellettiva. Tale facoltà è il potere immaginativo, quello che dobbiamo evitare di confondere con l’immaginazione che i moderni identificano con la “fantasia” e che, secondo questo parere, produce semplice “immaginario”. A questo punto siamo contemporaneamente al cuore della nostra ricerca e del nostro problema di terminologia.

Cos’è il mondo intermedio? E quello di cui abbiamo parlato poco fa, chiamandolo “ottavo clima” [nota: Corbin usa “clima” nell’accezione antica. Dizionario De Mauro, Clima: ciascuna delle sette zone in cui i geografi antichi dividevano l’emisfero boreale: il sole illuminò ciascun clima del nostro emisperio (Boccaccio) | regione, paese: fia ne l’Ausonio clima | collocata nel numer de le Dive (Ariosto)]. Per i nostri filosofi, infatti, il mondo dell’estensione percepibile include i setti climi della loro geografia tradizionale. Ma esiste anche un altro clima, rappresentato da quel mondo che, pur possedendo estensione e dimensioni, forme e colori, essi non sono percepibili ai sensi, a differenza di quanto accade nei corpi fisici. No, queste dimensioni, forme e colori sono oggetto della percezione immaginativa o dei “sensi psico-spirituali”; e quel mondo, pienamente oggettivo  e reale, dove ogni oggetto del mondo sensoriale ha un analogo, non percepibile dai sensi, è il mondo detto ottavo clima. Il termine è abbastanza eloquente di per sé, indicando un clima che si trova al di fuori dei climi, un luogo fuori dallo spazio, fuori dal dove (Na-koja-Abad!).

Il termine arabo con cui si indica, tecnicamente, 'alam a mithal, si può tradurre probabilmente anche con mundus archetypus, evitando ogni ambiguità. Infatti questa è la stessa parola che viene usata in arabo per indicare le Idee platoniche (che Sohravardi interpreterà nei termini del’angelologia zoroastriana). Comunque quando il termine è riferito alle Idee platoniche è quasi sempre accompagnato con la precisazione mothol (plurale di mithal) aflatuniya nuraniya, “gli archetipi platonici della luce”. Quando la parola si riferisce all’ottavo clima invece indica, tecnicamente, le Immagini Archetipe di cose individuali e singolari; in questo caso si riferisce alla regione orientale dell’ottevao clima, la città di Jabalqa, dove queste immagini preesistono e si ordinano prima di essere nel mondo sensoriale. Il termine indica anche la regione occidentale, la città di Jabarsa, il mondo o intermondo in cui si trovano le Anime dopo aver trascorso il loro passaggio nel mondo terrestre naturale e il mondo in cui si trovano le forme di tutte le opere compiute, le forme dei nostri pensieri e desideri, dei presentimenti e dei comportamenti. Questa composizione costituisce l’ 'alam al-mithal, il mundus imaginalis.

Tecnicamente, inoltre, i nostri filosofi lo designarono come il mondo delle “Immagini sospese” (mothol mo'allaqa). Sohravardi e la sua scuola intesero questo un modo proprio delle realtà di questo mondo intermedio, che noi designiamo come Imaginalia. La precisa natura di tale stato ontologico proviene dalla visione e dall’esperienza spirituale, cui Sohravardi ci chiede di basarci completamente, proprio come in astronomia sulle osservazioni di Ipparco o Tolomeo. Si deve riconoscere che le forme e le conformazioni del mundus imaginalis non sussistono allo stesso modo delle realtà empiriche del mondo fisico; altrimenti chiunque potrebbe percepirle. Si deve notare che non possono sussistere nel mondo puramente intelligibile, poiché possiedono estensione e dimensione, una materialità “immateriale”, certamente, in relazione a quella del mondo sensoriale, ma, di fatto, una propria “corporeità” e spazialità (si può pensare qui all’espressione usata da Henry More, un platonico di Cambridge, spissitudo spiritualis, espressione che si ritrova esattamente nell’opera di of Sadra Shirazi, platonico persiano). Per la stessa ragione, si deve escludere che esse abbiano solo il nostro pensiero come substrato, perché sarebbero allora irreali, nulla; d’altra parte, non possiamo discernerle, classificarle in gerarchie, o formulare giudizi su di esse. L’esistenza di questo mondo intermedio, mundus imaginalis, appare dunque metafisicamente necessaria; le funzioni cognitive dell’Immaginazione sono ordinate su di esso; si tratta di un mondo il cui livello ontologico è al di sopra di quello del mondo sensibile e al di sotto di quello intelligibile; è più immateriale del primo e meno immateriale dell’ultimo. In esso vi è sempre stato qualcosa di fondamentale importanza per tutti i nostri pensatori teosofi. Da questo dipende, secondo loro, la validità della testimonianza visionaria che percepisce e relaziona gli “eventi del Cielo” e la validità dei sogni, dei riti simbolici, dei luoghi creati nella meditazione intensa, la realtà delle visioni immaginative, delle cosmogonie e delle teogonie, e quindi, soprattutto, la verità del senso spirituale percepito dell'istruzione spirituale della rivelazione profetica.

In breve, quello è il mondo dei “corpi sottili” idea che si dimostra indispensabile per dimostrare il collegamento tra il puro spirito e il corpo materiale. Ciò si riferisce alla designazione dell’essere “in sospeso”, cioè quel modo d’essere di tale Immagine o Forma, in quanto sua propria “materia”, è indipendente da ogni sostrato per cui si troverebbe nell’immanenza come un accidente. Questo significa che non può sussistere alla stessa maniere in cui, ad esempio, il colore nero sussiste grazie agli oggetti neri cui è immanente. Il confronto cui i nostri autori sono ricorsi regolarmente è il modo dell’apparenza e della sussistenza delle Immagini “in sospeso” nello specchio. La sostanza materiale dello specchio, metallica o minerale, non è la sostanza dell’immagine, sostanza di cui l’immagine è un accidente. E’ semplicemente il “luogo dell’apparenza”. Questo porta ad una teoria generale dei luoghi epifanici e delle loro forme (mazhar, plurale mazahir) caratteristica della Teosofia Orientale di  Sohravardi.

L’Immaginazione attiva è lo specchio eccellente, il luogo epifanico delle Immagini del mondo archetipale; per questo motivo la teoria del mundus imaginalis è legata alla teoria della conoscenza immaginativa e della funzione immaginativa -  funzione propriamente centrale e mediatrice, grazie alla posizione mediana e mediatrice del mundus imaginalis. E’ la funzione che permette a tutti gli universi di simbolizzarsi l’uno con l’altro (ovvero esistere in relazione simbolica l’uno con l’altro) e che ci porta a riconocere, sperimentalmente, che le stesse realtà sostanziali assumono forme in relazione a ciascun universo  (per esempio, Jabalqa e Jabarsa corrispondono nel mondo sottile agli Elementi del mondo fisico, mentre Hurqalya corrisponde nel mondo sottile al Cielo).  E’ la funzione cognitiva dell’Immaginazione che permette di stabilire una rigorosa conoscenza analogica, superando il dilemma del razionalismo, che lascia soltanto la scelta tra i due termini di un dualismo banale: “materia” o “spirito”, un dilemma che la “socializzazione” della coscienza risolve sostituendolo con una scelta non meno fatale: “storia” o “mito”.

Questo genere di dilemma non ha mai tratto in inganno coloro che sono familiari con l’”ottavo clima”, il regno dei “corpi sottili”, soglia del Malakut o mondo dell’Anima. Sappiamo che quando essi dicono che il mondo di Hurqalya inizia “sulla superficie convessa della Sfera suprema” vogliono indicare simbolicamente che quel mondo si trova sul confine in cui si verifica l’inversione della relazione di interiorità espressa dalle preposizioni “in” e “all’interno di”. I corpi spirituali o le entità spirituali non sono più in un mondo, nemmeno nel loro mondo, nel modo in cui un corpo occupa lo spazio, o è contenuto in un altro corpo. Il loro mondo è in essi. Perciò la Teologia attribuita ad Aristotele, la versione araba delle Enneadi di Plotino, che fu annotata da Avvicenna e che tutti i nostri filosofi hanno letto e meditato, spiega che ciascuna entità spirituale si trova nella “totalità della sua sfera Celeste”; ciascuna sussiste, certamente, indipendentemente dalle altre,  ma tutte sono simultanee e ciascuna è all’interno di ogni altra. Sarebbe completamente falso descrivere l’altro mondo come un paradiso informale e indifferenziato. Vi è, ovviamente, molteplicità, ma le relazioni nello spazio spirituale differiscono dalle relazioni dello spazio compreso sotto la volta stellata, come il fatto di essere in un corpo differisce dall’essere “nella totalità della propria sfera Celeste”. Ecco perché si può dire: “al di là di questo mondo vi è un cielo, una terra, un oceano, animali, piante e uomini celesti; ma ogni essere là è celestiale; quelle entità spirituali corrispondono a questi esseri umani,  ma non vi si trova nulla di terrestre.”

La formulazione più esatta di tutto questo, nella tradizione teosofica occidentale, si trova probabilmente in Swedenborg. Non si può che restare sorpresi della concordanza o convergenza tra le affermazioni del grande visionario svedese e quelle di Sohravardi, Ibn 'Arabi, o Sadra Shirazi. Swedenborg dice che “tutte le cose in Paradiso appaiono, come nel mondo, avere luogo e dimensione, ma gli angeli non hanno alcuna nozione di luogo e dimensione”. Questo perché “tutti i cambiamenti di spazio nel mondo spirituale sono effetti di variazioni di stato interiori, cioè ogni cambiamento di luogo è in realtà un cambiamento di stato… Si trovano vicini gli uni agli altri quelli che sono simili in stato e sono distanti quelli che sono in stati differenti; e gli spazi del cielo sono semplicemente condizioni esteriori corrispondenti a stati interiori. Per la stessa ragione i cieli sono distinti gli uni dagli altri... Quando qualcuno si sposta da un luogo all’altro...  arriva velocemente dove desidera ardentemente andare, e con minore rapidità dove non lo desidera, poiché la via si allunga e si accorcia a seconda del desiderio. Questo ho visto di frequente con mia sorpresa. Tutto ciò esprime come le distanze, e quindi lo spazio, siano pienamente in accordo con gli stati interiori degli angeli; dunque, non vi è idea di spazio nei loro pensieri, sebbene lo spazio esista in loro quanto nel mondo.” [Emmanuel Swedenborg “Heaven and its Wonders and Hell”]

Una tale descrizione è del tutto appropriata al Na-koja-Abad e alle sue misteriose città. In breve, ne segue che esiste un luogo spirituale e un luogo corporeo.  Il trasferimento dall’uno all’altro non si svolge affatto in accordo con le leggi del nostro spazio fisico omogeneo. In relazione al luogo corporeo, il luogo spirituale è un Non-dove, e per colui che raggiunga il Na-koja-Abad tutto avviene all’inverso di quanto accade nei fatti della coscienza ordinaria, che rimane orientata all’interno del nostro spazio. Perciò da qui in avanti è il dove, il luogo, a trovarsi dentro l’anima; è la sostanza corporea a risiedere nella sostanza spirituale; è l’anima a racchiudere e trasportare i corpo. Ecco perché non è possibile stabilire dove si situa il luogo dello spirito; non è situato, piuttosto è situante. E’ l’ubi e l’ubiquo. Certamente ci possono essere corrispondenze topografiche tra il mondo sensoriale e il mundus imaginalis, con legami simbolici reciproci. Comunque non vi è passaggio dall’uno all’altro senza una frattura.

Molte testimonianze ce lo dimostrano. Ad un certo momento, si ha una rottura nelle coordinate geografiche che si possono rintracciare sulle nostre mappe. Ma il “viaggiatore” non è conscio del momento esatto; non potrà realizzarlo chiaramente, se non dopo. Se fosse cosciente di quanto gli accade, potrebbe decidere di mutare il suo cammino, o potrebbe indicarlo ad altri. Invece potrà solo riferire dove è stato; non può mostrare la via a nessun altro.

[segue: Henry Corbin: Mundus Imaginalis, o l’Immaginario e l’Immaginale (2)]

 

 

 

 

Testi, illustrazioni e traduzioni sono di Beatrice Polidori (Udai Nath). © Tutti i diritti riservati.

 

 

 

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