[Traduzione a cura di Alessandra Grana, Debora Menozzi, Beatrice Udai Nath.]
CAPITOLO 1: L'uccisione di Madhu e Kaitabha:
Meditazione su Mahakali. Om! Mi inchino a Mahakali che ha dieci facce, dieci braccia e che ha nelle sue mani la spada, il disco, la mazza, le frecce, l'arco, il bastone, la lancia, il missile, la testa mozzata e la conchiglia, che ha tre occhi e ornamenti su tutti i suoi arti, luminosa come uno zaffiro, e che Brahma invocò per distruggere Madhu e Kaitabha, quando Vishnu era immerso nel sonno mistico.
OṀ. Saluto a Caṇḍikā. [OṀ namaścaṇḍikāyai]
1.1 OṀ aiṁ. Disse Markandeya:
1.2. Ti racconterò la storia di Savarni, figlio di Surya, che è chiamato l'ottavo Manu. Ascolta, mentre descrivo in dettaglio la sua nascita,
1.3 Di come Savarni, figlio illustre di Surya, divenne il re per grazia di Mahamaya.
1.4. Un tempo, nel periodo di Svarocisa, un re chiamato Suratha, nato dalla dinastia di Chitra, governava sul mondo intero
1.5 e proteggeva i suoi sudditi come fossero i suoi propri figli. Ma alcune tribù nemiche decisero di attaccare le colline native e diventare suoi nemici.
1.6. Benché dotato di armi potenti, il re fu sconfitto, nonostante le forze inferiori dei nemici.
1.7 Tornò allora alla sua provincia nativa e regnò su quello che restava del suo paese. Poi quel re illustre fu preso di mira da potenti nemici interni
1.8 E fu così che, nella sua stessa città, fu derubato dai suoi ministri malvagi e corrotti.
1.9 Perciò, privato della sovranità, il re montò a cavallo e con il pretesto di una battuta di caccia, prese la via della foresta.
1.10 Giunse quindi all'eremitaggio di Medhas, il più nobile fra i nati due volte, dove vide animali selvatici aggirarsi pacifici, e fu accolto tra i discepoli del saggio.
1.11 Accettato dal saggio, Suratha trascorse un po' di tempo aggirandosi nell'eremitaggio.
1.12. Mentre era là, le preoccupazioni egoistiche presero la sua mente e presto si fece vincere dai pensieri cupi:
1.13 “Ho lasciato la ricchezza che era stata ben governata dai miei antenati alla mercé dei miei servitori, che sono stati inaffidabili.
1.14 E il mio elefante, eroico e fiero, ora è affidato alle cure dei miei nemici. Che ne sarà stato di lui?
1.15 Quelli che erano i miei servitori, sempre alla ricerca di favori, ricchezza e banchetti, ora sicuramente si saranno sottomessi ad altri signori.
1.16 Il tesoro che io ho accumulato con grande lavoro sarà stato già dissipato da quei dissennati”
1.17. Il re pensava a queste e altre cose, quando vide un commerciante che si dirigeva solitario in direzione dell'eremitaggio, e gli chiese:
1.18 “Chi sei? Quale è la ragione del tuo arrivo qui? Perché appari così afflitto e depresso?”
1.19 Sentendo le parole amichevoli del re, il commerciante si inchinò rispettosamente e rispose.
1.20 Disse il commerciante:
1.21. “Io sono un commerciante chiamato Samadhi, nato in una famiglia ricca. Sono stato scacciato dai miei figli e da mia moglie, indeboliti dall'avidità.
1.22 Mia moglie e i miei figli si sono appropriati della mia ricchezza e mi hanno privato di tutto. Espulso dai miei familiari, deluso dalle persone più care, sono venuto nella foresta.
1.23 Dacché sono qui, non so se una sorte favorevole o avversa sia toccata ai miei figli, ai parenti e alla moglie.
1.24 Stanno ancora bene o la sfortuna si è già abbattuta sulle loro case?
1.25 Cosa fanno i miei figli? Si comportano virtuosamente o si comportano male?”
1.26 Disse il re:
1.27 “Quella gente avida, i tuoi figli, la moglie e gli altri che ti hanno spogliato della tua ricchezza
1.28 Perché ancora la tua mente li pensa con affetto?”
1.29 Rispose il commerciante:
1.30. “L'ho pensato nel momento in cui l'hai detto. Cosa posso fare? Il mio cuore non riesce a indurirsi nel rancore,
1.31 ma si volge ancora con affetto verso coloro che mi hanno allontanato, disprezzando l'amore per il padre, il marito e il parente, per brama di ricchezza.
1.32 Lo riconosco, o saggio. Tuttavia, non capisco come i miei pensieri siano portati all'amore per coloro che se ne sono dimostrati indegni.
1.33 A causa loro piango, sopraffatto dalla disperazione.
1.34 Cosa posso fare, se il dolore non è riuscito a indurire il mio cuore?”
1.35 Proseguì Markandeya:
1.36 Quindi si avvicinarono insieme a incontrare il saggio Medhas
1.37 il commerciante Samadhi ed il nobile re Suratha
1.38 e dopo averlo salutato con rispetto, si sedettero per esporgli le loro storie.
1.39 Disse il re:
1.40 “Signore, io desidero porti un quesito, che ti chiedo di risolvere gentilmente.
1.41 Senza il controllo dei pensieri, la mia mente è afflitta dal dolore.
1.42 Provo attaccamento per il mio regno perduto e per tutto ciò che ho avuto, come non mi rendessi conto che non sono più miei. Come accade questo, Oh migliore tra i saggi?
1.43 E questo commerciane che è stato rovinato dai propri figli e dalla moglie, abbandonato dai servitori e dimenticato dalla sua gente, è comunque affettuoso verso di loro.
1.44 Così lui e io, legati dall'attaccamento verso oggetti i cui difetti ben conosciamo, siamo profondamente afflitti.
1.45 Come avviene quest'illusione sebbene ne siamo consapevoli? Siamo disorientati come coloro che non conoscono”.
1. 46 Rispose il Rishi:
1.47. “Illustre re, ogni essere vivente ha conoscenza di oggetti percepibili dai sensi. E l'oggetto dei sensi si manifesta in vari modi.
1.48 Alcuni esseri sono ciechi di giorno, ed altri sono ciechi di notte; altri esseri hanno vista uguale sia di giorno che di notte.
1.49 Gli esseri umani sono certamente dotati di buona percezione, ma loro non sono gli unici esseri ad esserne dotati, anche i bovini, gli uccelli, gli animali selvatici e tutte altre creature hanno cognizione degli oggetti dei sensi.
1.50 La coscienza che gli uomini hanno, ce l'hanno anche gli uccelli e gli altri animali; e quella che a loro è propria anche gli uomini possiedono; anche per altre cose sono molto simili.
1.51 Guarda gli uccelli che, sebbene oppressi dalla fame, si adoperano per sfamare i loro figli.
1.52 Gli esseri umani sono attaccati ai loro figli poiché sperano che essi gliene saranno grati. Non riesci dunque a vedere questo?
1.53 Così anche gli uomini sono risucchiati nel vortice degli attaccamenti, e cadono nell'illusione, attraverso il potere di Mahamaya che crea il ciclo continuo del mondo transitorio.
1.54 Non ti meravigliare. Questa Mahamaya è Yoganidra, il sonno di Vishnu, Dio del mondo. È da Lei che il mondo è ingannato.
1.55 È Lei, Bhagavati, Mahamaya, che rapisce la mente anche del saggio, e fa cadere in inganno.
1.56 Lei crea questo universo intero, tutto ciò che si muove e che non si muove. È Lei che, quando giunge il momento propizio, benedice gli esseri umani con la liberazione.
1.57 Lei è la conoscenza suprema, la causa eterna della liberazione;
1.58 Lei è la causa della schiavitù della trasmigrazione e la sovrana su tutti gli dei. 1.59 Disse il re:
1.60 "Venerabile Signore, chi è quella Dea che chiami Mahamaya? Come appare, e qual è la sua sfera di azione, O Brahmana?
1.61 Qual è la sua forma? Da dove ebbe inizio?
1.62 Questo desidero sapere, oh supremo fra i conoscitori del Brahman." 1.63 Disse il Rishi:
1.64 Lei è eterna, l'Universo è la sua forma. Da lei tutto l'universo è pervaso.
1.65 Lei si manifesta in molteplici forme; dunque, ascoltami.
1.66 Quando lei si manifesta per portare a termine gli scopi degli Dei, si dice che Lei sia nata nel mondo, sebbene sia eterna.
1.67. Alla fine del tempo cosmico, quando l'universo si dissolse nell'oceano primordiale, il beato signore Viṣṇu si distese sul serpente Śeṣa ed entrò nel sonno meditativo.
1.68. Quindi due temibili asura, i famigerati Madhu e Kaiṭabha, uscirono dalla cera nelle orecchie di Viṣṇu, con l'intento di uccidere Brahmā,
1.69 che si trovava sul loto che cresceva dall'ombelico di Viṣṇu. Quando vide gli Asura attaccare furiosi e Visnu addormentato,
1.70 Brahmā cercò di risvegliarlo, quindi con mente concentrata lodò la dea Yoganidra, che si era distesa sugli occhi di Hari
1.71 come sonno benedetto. Brahma celebrò con le sue parole l'incomparabile Dea di Vishnu, Yoganidra, la regina del cosmo, colei che sostiene i mondi, la causa della nascita e della dissoluzione dell'universo.
1.72 Disse Brahma:
1.73-74 "Tu sei Svaha e Svadha. Tu sei veramente Vasatkara e incarnazione di Svara. Tu sei il nettare. Oh eterna ed imperitura, Tu sei l'incarnazione del triplice mantra. Tu sei veramente colei la quale non può essere pronunciata specificamente. Tu sei Savitri e la Madre suprema degli dei.
[Alt. “Sei i mantra della consacrazione agli dei e agli antenati. Al tuo cenno
sono pronunciati e sono la tua vera incarnazione. Sei il nettare dell'immortalità, Oh imperitura ed eterna. In verità, tu rimani come l'essere trascendente, eppure in ogni momento dimori, inseparabile e inesprimibile, come l'eterna fonte di tutto il divenire. Tu sei quello. Sei Sāvitrī, la fonte di tutta la purezza e la protezione; sei la suprema madre degli dei.”]
1.75 Da Te questo universo è sostenuto, da Te questo mondo è nato. Da Te è protetto, Oh Devi e da Te alla fine è distrutto.
1.76 Tu sei la forza creativa, durante la creazione del mondo, e sei il suo sostegno per il tempo che permane; al tempo della risoluzione del mondo Tu sei la forma del potere distruttivo che supera ogni altro.
1.77 Tu sei la Conoscenza suprema così come la grande illusione, l'intelletto universale e la memoria di tutto, la grande Dea e il più temibile dei demoni.
1.78. Tu sei la materia primordiale e la differenziazione delle qualità. Tu sei la notte oscura della dissoluzione. Tu sei la grande notte della risoluzione finale, e la terribile notte dell'illusione.
1.79 Tu sei lo splendore radioso, la dea benevola, la regnante, la nascosta, la luce dell'intelligenza, l'umiltà, il nutrimento, l'appagamento, la tranquillità e l'indulgenza.
1.80 Armata con la spada, la lancia, il bastone, il disco, la conchiglia, l'arco, le frecce, la fionda e mazza di ferro, incuti il sacro timore.
1.81 Eppure Tu sei gentile, più piacevole di tutte le cose piacevoli e la più bella. Tu sei davvero la suprema Isvari, oltre l'alto e il basso.
1.82. E qualora e dovunque una cosa esista, reale o non reale, ogni cosa è Te sola. Oh Tu che sei l'anima di tutto, la potenza di tutto, come posso celebrarti degnamente?
1.83 Da Te, anche colui che crea, sostiene e divora il mondo, è stato assopito. Chi è capace di celebrarti?
1.84 Chi è capace di lodarti, Tu che ha creato tutti noi, Vishnu, me e Shiva, Tu che prendi le nostre forme incarnate?
1.85 Oh Devi, ora che hai ascoltato la mia lode, getta nella confusione questi due inattaccabili demoni Madhu e Kaitabha.
1.86 Permetti che Vishnu, il signore del mondo, sia svegliato rapidamente dal sonno
1.87 e si innalzi per uccidere questi due demoni." 1.88 Disse Il Rishi:
1.89 Così celebrata da Brahma, il creatore, perché risvegliasse Vishnu per distruggere Madhu e Kaitabha, la Dea oscura immediatamente
1.90 fuoriuscì da Vishnu attraverso occhi, bocca, narici, braccio, cuore e petto, ed apparve alla vista di Brahma, nato dall'immanifesto.
1.91 Janardana, Dio dell'universo, da Lei liberato, si rialzò dal serpente che era il suo giaciglio sull'oceano dell'indifferenziato, e vide
1.92 quei due demoni malvagi, Madhu e Kaitabha, forti di grande arroganza e coraggio, con occhi rossi di rabbia, determinati a divorare Brahma.
1.93 Quindi Bhagavan Vishnu che tutto pervade si alzò e lottò a mani nude con i demoni per cinquemila anni.
1.94 Ma loro, resi folli dalla furia e dall'arroganza, illusi da Mahamaya,
1.95 provocarono Vishnu, dicendo "Chiedici un beneficio!" 1.96 Bhagavan Vishnu disse:
1.97 "Se questo può farvi piacere, così sia: che io vi sconfigga entrambi e subito.
1.98 Quale altro beneficio dovrei chiedere? La mia scelta è questa." 1.99 Disse Il Rishi: .
1.100 Quei due demoni, così stregati da Mahamaya, vedendo che il mondo intero era coperto d'acqua, dissero a Bhagavan:
1.101“Uccidici in un luogo dove la terra non sia coperta dall'acqua.” 1.102 Disse Il Rishi:
1.103 “Così sia” rispose Bhagavan Vishnu, il dio della conchiglia, del disco e della mazza. Li prese quindi sulle sue gambe e là troncò le loro teste col Suo disco.
1.104 Così Mahamaya rispose alle lodi di Brahma. Ora, però, ascoltate ancora la gloria di questa Dea che vi racconterò.
Commento:
Meditazione su Mahākālī: questa breve meditazione (dhyāna) ci invita a immergerci nel più profondo di tutti i misteri. Secondo la visione del mondo di Devīmāhātmya, la domanda da porre è: come fa l'Uno, che è l'essere eterno in sé, a manifestarsi come i molti? La domanda diventa un'indagine sulla natura del processo creativo stesso, e l'indagine rivela che la creazione dell'universo è in realtà una transizione dalla potenzialità in attualità. Questa verità è inerente anche alla parola sanscrita per creazione: sṛṣṭi significa letteralmente "Emissione" o "scatenamento" da uno stato latente a uno manifesto.
Ognuna delle tre sezioni di Devīmāhātmya inizia con una meditazione su una delle Devi supreme, nelle tre forme primarie. Queste forme - Mahākālī, Mahālakṣmī e Mahāsarasvatī - non rappresentano (solo) Kālī, Lakṣmī e Sarasvatī, dee della devozione popolare che appartengono a un livello più immediato di esperienza religiosa. Invece, ciascuna è immensamente più potente, quale aspetto cosmico (vyaṣṭi) della Devī. Sono le energie universali di inerzia, dinamismo e luminosità: i tre guṇa, tamas, rajas e sattva. Sono alla base di tutte le successive attività di creazione, sostegno e dissoluzione. Sebbene indescrivibili, sono concepite come le forme a quattro braccia di Mahākālī, Mahālakṣmī e Mahāsarasvatī.
Mahākālī, l'aspetto tamasico della Devī che presiede la prima carita, ha dieci braccia che simboleggiano le dieci direzioni (i quattro punti cardinali, i punti intermedi e i punti sopra e sotto) quale idea della divina onnipresenza. La spada rappresenta la consapevolezza che distrugge l'ignoranza separando ciò che è apparente e transitorio da ciò che è reale e costante (Viveka). Il disco è la ruota del tempo che gira costantemente, che distrugge inesorabilmente tutto ciò che ha nome e forma. Secondo il Varāhapurāṇa, la mazza distrugge l'iniquità (adharma). Il Viṣṇupurāṇa interpreta l'arco come l'aspetto tamasico dell'ego e le frecce come gli organi sensoriali e motori. Il contenimento o l'autocontrollo è l'idea generale dietro la mazza di ferro. Nella battaglia del Devīmāhātmya, la lancia della Divina Madre è una metafora dell'intuizione penetrante della consapevolezza spirituale. La testa umana recisa rappresenta l'ego vinto e quindi il trionfo sulla limitazione individuale che oscura il Sé infinito (ātman). La conchiglia distrugge l'ignoranza; il suo suono di buon auspicio simboleggia il potere del risveglio alla consapevolezza divina. I tre occhi di Mahākāli, che guardano il passato, presente e futuro, simboleggiano l'onniscienza. La sua carnagione blu-nera ricorda il vasto cielo notturno e parla della sua infinità.
Invocazione: il mantra OṀ namaścaṇḍikāyai ("OṀ. Saluto a Caṇḍikā") invoca la Devi nella sua forma suprema, samaṣṭi. Sconosciuta nei Veda, il nome Caṇḍikā appare per la prima volta nel Devīmāhātmya. Caṇḍikā significa "violento e impetuoso", la cui rabbia e ferocia, secondo il commentatore Bhāskararāya, ispira timore reverenziale. Tuttavia, questo significato letterale non dovrebbe limitare la comprensione di Caṇḍikā alla sola idea di una dea feroce e terribile. Guptavatī, il grande commento di Bhāskararāya sul Devīmāhātmya, afferma che "Caṇḍī [kā] è il più alto Brahman", la suprema realtà non duale. È Saṁvit, il puro Essere, la coscienza unitaria che proietta i tre vyaṣṭi nel processo di manifestazione cosmica. Nel linguaggio degli Śākta, queste energie sono chiamate, rispettivamente, Mahākālī, Mahāsarasvati e Mahālakṣmī. Questa triplice differenziazione, osserva Bhāskararāya, è descritta nel Svetaśvātaropaniṣad (SU 6.8) come icchā ("volontà"), jñāna ("conoscenza") e kriyā ("Azione") di Brahman. Per Bhāskararāya, il potere (śakti) e il possessore del potere (śaktiman) sono uno e il medesimo, e i vyaṣṭi non sono separati dall'unità ultima della Devī. Di conseguenza, il nome Caṇḍikā rappresenta sia l'Assoluto senza forma in sé (Ādyā Śakti, o Nirguṇa Brahman in termini vedantici) e quella stessa realtà in associazione con il suo inseparabile, triplice potere (le Devi, o saguṇa Brahman). Il Prādhānika Rahasya, che fa parte del primo commento sul Devīmāhātmya, descrive la suprema Devī come laksyālakṣyasvarūpā (“con e senza distinzioni caratteristiche ”). In sostanza, la realtà divina è sia definibile che indefinibile, allo stesso tempo immanente e trascendente. Nel XVIII secolo questo paradosso fu espresso dal poeta bengalese Kamalākānta nell'epiteto śunyasyākāra ("la forma dell'informe"). Tali espressioni riflettono il vero senso del mantra OṀ namaścaṇḍīkāyai: “Saluto alla coscienza assoluta che si manifesta come l'universo creato. "
La storia inizia con il Re e il Mercante che chiedono al Saggio Medha come la mente possa essere catturata dall'inganno, nonostante la consapevolezza razionale. La causa di questa illusione, dice Medhas, è la dea Mahāmāyā. Questo nome, che compare solo nella prima carita, può significare che la Devi possiede una grande maya o che lei stessa è la grande maya. In entrambi i casi, māyā è il potere che produce il flusso ciclico (saṁsāra) di questo mutevole mondo. È il potere di auto-occultamento che impone i limiti intrecciati del tempo e dello spazio sull'infinita, assoluta coscienza. Ed è il potere che proietta il senso di identità personale, l'ego, che oscura l'unità sottostante della realtà. Medhas si riferisce anche a Mahāmāyā come Yoganidrā, un altro nome della Devī che si verifica solo nella prima carita. Quando Medhas dice che nemmeno il saggio sfugge al potere di Mahāmāyā, egli sta affermando semplicemente che nulla in questo mondo è come sembra. Il tempo e lo spazio distorcono le nostre percezioni, e conosciamo l'universo non come è ma solo come lo sperimentiamo individualmente. Medhas si riferisce a questa divinità illusoria come "benedetta" e rassicura che Mahāmāyā ha due aspetti. Come Avidyāmāyā è il potere velante che lega attraverso il senso limitante dell'individualità, e come Vidyāmāyā è la conoscenza liberatrice che spezza ogni legame.
La Devī si manifesta come l'universo e pervade tutto. “Eppure emerge in vari modi ", continua Medhas. Oltre a prendere forma come le varie forze naturali e oggetti del materiale mondo, si manifesta come dee personificate, alcune delle quali ci incontreremo nei capitoli successivi. Lei lo fa "per raggiungere lo scopo degli dei", la cui funzione è quella di difendere l'ordine cosmico il caos generato dalle forze demoniache. Ma la Devì non è in alcun modo sottomessa agli dei; ogni volta che quelli falliscono, lei stessa, che è incommensurabilmente più potente, deve intervenire. Lei che si manifesta come questo mondo (1.64) ed entra in questo mondo (1.66). L'universo diventa la sua sfera di attività e quella l'attività è l'argomento dei tre racconti che Medhas ora inizia a mettere in relazione.
Secondo la cosmologia dei Purana, alla fine di un kalpa o giorno del Brahmā, l'universo si dissolve nuovamente nello stato causale o potenziale. Il simbolismo tradizionale Vaiṣṇava per tale periodo provvisorio rappresenta il dio supremo, Viṣṇu, immerso nel sonno meditativo (yoganidrā), disteso sul serpente dalle mille teste Śeṣa, che galleggia sull'oceano indifferenziato della potenzialità. Un loto cresce dal suo ombelico, radioso come il sole. Brahmā stesso, intimidito dai demoni Madhu e Kaiṭabha, risveglia il dio addormentato appellandosi al potere della Devī, che come dea Yoganidrā ha assunto un ruolo attivo distendendosi sugli occhi di Dio. Viṣṇu non è più onnipotente; invece è la Devī che controlla l'universo nei suoi stati sia manifesti che non manifesti. Per liberare il dio dormiente dall'incantesimo di Yoganidrā, Brahmā deve lodare "colei che governa l'universo, che lo sostiene e lo dissolve ...l'incomparabile ”.
L'inno è incentrato sull'aspetto cosmogonico della Devi, celebrando dapprima la sua natura assoluta e trascendente, nella forma della parola (Svaha e le forme derivate), così come del riassorbimento del Suono, quindi esaltando i suoi triplici poteri di creazione, conservazione e distruzione, che dispiegano l'universo come lo conosciamo.
In particolare l'apertura dell'inno cantato da Brahma si appella alla Dea come Parola, come potenza creatrice e espressione originaria dell'Assoluto ineffabile:
Una traduzione letterale potrebbe suonare: Sei Svāhā. Sei Svadhā. Sei sicuramente il vaṣaṭkāra, avendo il suono come tua essenza. / Sei il nettare, o eterna e imperitura. Rimani come l'essenza del triplice mātrā. Rimani come metà del mātrā, eterna, che non può essere pronunciata in modo specifico. / Sei davvero quello; tu sei Sāvitrī; sei la suprema madre degli dei. Nel rituale vedico, svāhā è il mantra della consacrazione intonato quando viene versata un'oblazione agli dei nel fuoco sacrificale; svadhā è il mantra che accompagna un'oblazione agli spiriti dei defunti e degli antenati. Entrambi i mantra sono talvolta personificati come consorti di Agni, il dio del fuoco che trasmette le offerte rituali agli dei. Durante il rituale il sacerdote che recita gli inni sacrificali pronuncia la parola vaṣaṭ per chiamare un altro sacerdote a versare l'oblazione nel fuoco. L'esclamazione, identificata come Vaṣaṭkāra e personificata come la divinità Vaṣaṭkāra, è identificata qui con il Devī. In altre parole, è attraverso la sua azione che il sacrificio è compiuto. Nel più ampio schema delle cose, lei che è svarātmikā (“avendo il suono come sua essenza ”) è anche l'agente della creazione, perché l'universo è energia potenziale resa manifesta dalla vibrazione del suono, o parola sacra. L'inno Rgvedico noto come Devīsūkta (ṚV 10.125), la dea Vāk ("Parola") si proclama sia la realtà suprema che la fonte di tutto il divenire. Una delle più importanti dee vediche, Vāk è spesso caratterizzata come onnipresente principio cosmogonico. Come tripla mātrā si riferisce alla sillaba OṀ, che consiste delle tre vocali corte a-u-m. OṀ comprende quindi l'intero universo dei fonemi ed è considerato simbolo dell'inizio, della metà e della fine di tutte le cose. Come la tripla mātrā, la Devī è il potere di creazione, conservazione e distruzione inerente a Brahman [Iswara]; e perché il potere (śakti) e il suo possessore (śaktiman) sono indistinguibili, Devī è proclamata qui come realtà suprema, non duale. Il mezzo mātrā, scritto come il punto (bindu) che nasalizza la vocale precedente, rappresenta lo stato di potenza condensato immediatamente prima dell'attualizzazione dell'universo, il punto di tutte le possibilità da cui la creazione emana e in cui nel silenzio si riassorbe al termine dell'onda sonora-creatrice.
Conosciuta nella mitologia come la moglie del creatore Brahmā, la dea Sāvitrī o Gāyatrī, è la personificazione del verso più sacro di Rgveda, il mantra Gāyatrī: Oṁ bhūr bhuvaḥ suvaḥ tat savitur varenyaṁ bhargo devasya dhīmahi dhiyo yo naḥ pracodayāt (“Possiamo meditare sullo splendore della divinità, che possa illuminare i nostri pensieri ”) (ṚV 3.62.10). È la fonte della sacra conoscenza, il seme da cui scaturirono i Veda.
Questo capitolo quindi rappresenta il “sonno della coscienza” la condizione iniziale in cui si trovano i due interroganti di fronte al Guru. Il Dio, Vishnu, “dorme”, è impotente o assente, inattivo, non può essere risvegliato a difendere la debole Creazione (Brahma) che è come un feto attaccato al cordone ombelicale di Dio, bello e delicato come il loto che lo sostiene. Ma come Brahma, anche fragile, già corrotto di una propria defettibilità, che ritorna nei miti a Lui dedicati. Quindi oggetto delle angherie di forze ostili, che sorgono proprio a causa della nescienza, arroganti e pericolose. L'Assoluto non è evocabile, da questa condizione, è assente. Oscurato dalla Grande Illusione che si è distesa su di esso, che lo oscura, lo rende inarrivabile, come dormiente. E' solo lavorando su di Essa, evocandola nella sua metafisica universale e riconoscendone la Natura ultima, non diversa dall'Assoluto stesso, che il devoto Brahma la convincerà a “sollevarsi”, così come si solleva Kundalini nel corpo dello yogi, per sollevare il velo del sonno, o nescienza, che impedisce a Dio di manifestarsi e disperdere le forze avverse. Se a combattere contro le forze è il Dio, è però la Dea a rendere possibile la loro sconfitta, andando a insinuarsi nella loro coscienza. Questi demoni o forze ostili, sono personificazione dell'ignoranza metafisica che viene qui affrontata e sconfitta. Madhu, l'ebbrezza del potere (il miele, madhu, essendo epitome di tutto ciò che altera la mente e la percezione sensoriale, esaltandola) e Kaithaba, che è l'ape che produce e accumula questa sostanza eccitante, il desiderio insaziabile, sono “stolti”, convinti di essere invincibili, di poter concedere un favore a Dio stesso, decretando così la propria sconfitta. Sembrano rappresentare il modo in cui gli attaccamenti agiscono sulla mente, a prescindere dal loro oggetto: eccitazione e desiderio di accumulo. Quando lo sguardo di Brahma riesce a cogliere la verità, la prola sacra che sostiene il gioco dell'illusione, la sua “preghiera” è la formula che farà “risvegliare il Dio dormiente” e precipitare i demoni nella confusione e nella sconfitta.
[B. Udai Nath]
[Alcuni passaggi di questo commento, come dei successivi, sono ripresi e adattati da "In Praise of the Goddess, The Devīmāhātmya and Its Meaning" di Devadatta Kālī, come il testo originale da cui è tratta la traduzione integrale del Devi Mahatmaya.]