CAPITOLO 13: La benedizione del re Suratha e del mercante Samadhi
13.1 Il veggente disse:
13.2 "Così ti ho narrato, o re, la suprema gloria della Devi:
13.3 Tale è lo splendore della Devi, da cui il mondo è sostenuto, così è la conoscenza modellata dalla benedetta Viṣṇumāyā.
13.4 Da lei siete stati illusi tu e questo mercante e altre sagge persone, proprio come altri sono stati e saranno illusi.
13.5 O grande re, rifugiati in lei, la sovrana suprema. Quando venerata, conferisce all'umanità gioia, elevazione e liberazione completa". 13.6 Mārkaṇḍeya disse:
13.7 Ascoltando queste parole, il re Suratha si inchinò con reverenza dinnanzi all'illustre veggente, maestro di austere pratiche spirituali.
13.8 Sconfortato dall'eccessivo attaccamento alle cose materiali e dalla perdita del suo regno, immediatamente si dedicò alla pratica più rigorosa, e così fece il mercante,
13.9 con lo scopo di ottenere la visione della Madre. Il re e il mercante si stabilirono su una sponda del fiume e si impegnarono nella pratica spirituale, cantando il supremo inno alla Devi.
13.10 Dopo aver modellato con la terra un'immagine della Devi sulla riva del fiume, i due presero ad adorarla con fiori, incenso, fuoco e libagioni d'acqua.
13.11 Digiunando, trattenendo i sensi, con mente sempre concentrata, le porgevano offerte cospargendole con il sangue dei loro stessi corpi.
13.12 Quando l'ebbero adorata in tal modo per tre anni, Caṇḍikā, il sostegno dell'universo, fu soddisfatta. Apparve quindi dinnanzi a loro e parlò. 13.13 La Devi disse:
13.14 "Ciò che desideri, o re, e tu, [che sei stato] la gioia della tua famiglia,
13.15 lo riceverete da me. Con piacere, io ve lo concederò. 13.16 Mārkaṇḍeya disse:
13.17 Allora il re scelse un regno imperituro in un'altra vita e anche che il suo regno terreno fosse infine sottratto con la forza al controllo dei nemici.
13.18 E poi il saggio mercante, con mente calma, fece richiesta di quella conoscenza che recide l'attaccamento da "io" e "mio". 13.19 La Devi disse:
13.20 "Tra pochi giorni, o re, riprenderai il tuo regno.
13.21 Quando i tuoi nemici saranno stati vinti, il regno ritornerà ad essere tuo.
13.22 E dopo la tua morte otterrai un'altra nascita dal dio del sole Vivasvat.
13.23 Ritornerai quindi sulla terra, e regnerai su quell'epoca, come il Manu conosciuto con il nome di Sāvarṇi.
13.24 E la realizzazione che tu desideri, o più illustre tra tutti i commercianti,
13.25 a te la concedo. La conoscenza che porta alla Liberazione finale sarà tua".
13.26 Mārkaṇḍeya disse:
13.27 Quando ebbe dato a ciascuno le realizzazione desiderata, la Devi, lodata con devozione da entrambi, scomparve dalla loro vista.
13.28 Così, dopo aver ricevuto la benedizione della Devi, Suratha, il migliore dei sovrani, ottenne una nuova nascita dal dio del sole per divenire il manu Sāvarṇi,
13.29 egli diventerà il manu di nome Sāvarṇi. Klīm OṀ.
Si conclude così il Devīmāhātmya in 700 versi.
OM tat sat OM
COMMENTO
Quando si congedano da Medhas, il re e il mercante si dirigono verso la riva di un fiume e si impegnano in una sādhana intensa (13.9-11). Cantano l'inno supremo alla Devī e
modellano un'immagine di terra, probabilmente molto simile a quelle ancora realizzate in India per la Durgā Pūjā d'autunno.
Anche gli altri dettagli dell'adorazione e delle austerità, fatta eccezione per l'offerta di sangue umano, si ritrovano nelle pratiche moderne. Il digiuno significa non solo limitazione del nutrimento fisico, ma anche di qualsiasi cosa assunta attraverso i sensi, perché nel senso più ampio, "cibo" include tutto ciò che è sensoriale e intellettuale. Ridurre al minimo il cibo implica non solo l'ascetismo fisico, ma anche calmare la mente attraverso il controllo di tutto ciò che la stimola.
Quindi,a Devī Caṇḍikā appare al re e al mercante e concede a ciascuno di esaudire il proprio desiderio. Secondo ciò che ciascuno di essi ha maturato con l'ascesi, la Devī concede che il re combatterà coraggiosamente e riconquisterà il suo regno terreno. Dopo la sua morte, il dio del sole, Vivasvat, gli garantirà la rinascita come Sāvarṇi, il manu dell'ottavo manvantara.
E Samadhi, attraverso la conoscenza, raggiungerà il samadhi, l'unione con l'Assoluto.
In questa scena finale, la Devī appare esattamente come definita nel verso 11.7 del Nārāyaṇīstuti: la dispensatrice di godimento mondano e della liberazione finale (bhuktimuktipradāyinī).
“Colei che è diventata tutte le cose” esiste dall'eternità e prende forma come creazione (12.39). Tutto ci che è finito esiste nell'infinita Śakti, che è allo stesso tempo la realtà non duale e il caleidoscopico universo che è la forma luminosa del senza forma. La visione onnicomprensiva del Devīmāhātmya vede tutto l'essere e il divenire come una realtà, perché la Madre è tutto e di tutto è Madre.
Le differenti direzioni dell'esito della sadhana, il trono regale per l'uno e la liberazione per l'altro hanno importanti significati anche per la definizione generale delle discipline che si intendono qui sotto la protezione della Madre, quindi riconosciute nel Dharma. Si possono vedere i due sentieri rappresentare Karma Marga e Jnana Marga: al re simbolicamente è concessa la realizzazione della disciplina sacrificale, che concede il regno nel mondo del sole, tra gli dei, e all'uomo comune la possibilità di accedere alla Liberazione, a prescindere dalla sua nascita e iniziazione. Questa definizione è importante. La tradizione ammette entrambe le vie come degne e riconosciute, e Shakaracharya, che insegnerà specialmente la seconda, dirà però che è sulla “duplice via” che questo mondo è sostenuto. Come due colonne parallele che sostengono l'ordine sacro.
Ma non è all'uomo comune che è concesso il regno, si può osservare. L'uomo comune, il commerciante, che nella storia ha perduto ogni cosa, come l'ha perduta il re, ha davanti a sé la via senza appigli della Liberazione. Perduta la via dei Padri, che lo collocava tra le mura domestiche come sacrificatore dei fuochi domestici, la sua uscita dal mondo passa per la via del Rinunciante, a cui è ammesso dalla Devi, senza alcun altra mediazione, fino alla Liberazione. Il re invece può riottenere il suo status regale, perché la sovranità tradizionale è già un voto e un sacrificio, stabilito solennemente con il rito di consacrazione e perciò irreversibile. La regalità tradizionale è vista come uno status già semi-divino, per accedere al quale l'uomo che “volle farsi re” sacrifica se stesso, nel corpo del cavallo, per consacrarsi al bene del regno, come sua divinità incarnata, ormai tutt'uno con la funzione sovrana e divina che ha assunto. Dunque, per ciò, la regalità non viene cancellata, in quanto già implica la morte iniziatica. La Liberazione, intesa sia come disciplina volta alla liberazione, quanto, e ancor più, come compimento, è l'unico contraltare possibile, dove l'iniziato compie il sacrificio di sé per un regalità ancora superiore, la realizzazione dell'Atman, l'identità con il Supremo Assoluto stesso.
Il Devi Mahatmya si conclude quindi con un capitolo dedicato alla Sadhana, a ben vedere, non con una promessa generica di benedizioni e benefici. Coloro che per primi intrapresero l'ascolto delle gesta gloriose della Dea sono spinti da queste parole a sottoporsi a lunghi periodi di reclusione e di cura spirituale a cui seguirà l'impegno che con la Sadhana hanno maturato, come realizzazione dell'austerità. L'immagine è molto forte: “digiunando, trattenendo i sensi, con mente sempre concentrata, le porgevano offerte cospargendole con il sangue dei loro stessi corpi”, sebbene il sangue costituirebbe un'offerta impura, è qui inteso in segno del sacrificio, senza vittime sostitutive, senza espedienti, a cui si sottopongono: il sangue, come energia vitale stessa, seme e energia. Così ottennero ciò che desideravano, ma in realtà, ottengono ciò che era dovuto a ciascuno di loro. Quindi l'ascolto festivo delle gesta della Dea va inteso con questa potenzialità, di portare l'ascoltatore a rivolgersi con pieno impegno al compimento della sadhana, a partire proprio da questa rivelazione, così che raggiunga e realizzi pienamente lo scopo della propria esistenza.
Udai Nath, 25.10.2020
Adesh Adesh