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Testi del Vedanta, dello Yoga e della tradizione Hindu.

Dal 2001 Visionaire.org è scritto, illustrato, pubblicato da Beatrice Polidori (Udai Nath)

Testi del Vedanta

Bhagavad Gita

Il Signore creò  il mondo, e volle proteggere la sua esistenza. In primo luogo fece i progenitori, guida delle genti (prajaa - Pati), a partire da Marichi, e  impartì loro la legge  (Dharma), caratterizzata dai precetti operativi  (pravRitti) descritti nei Veda. Poi creò Sanaka, Sanandana e altri, e impartì loro la legge della rinuncia all'azione (NIVRitti), dalla conoscenza e dal  distacco. Duplice è la Legge descritta nei Veda - una di azione e l'altra di rinuncia all'azione – con cui è retto il mondo. Questa duplice legge deve essere osservata da parte dei membri di tutte le classi, a cominciare dai Brahmana, per tutta la durata delle stagioni della vita, in quanto porta direttamente a ottenere la prosperità e la liberazione, il Sommo Bene.

Nel corso del tempo, a causa dell'egoismo di coloro che dovevano difendere legge, e la conseguente diminuzione della conoscenza discriminativa, l'ingiustizia divenne più potente e prevalse sulla legge. Volendo mantenere la stabilità del mondo, il Creatore primordiale, che tutto pervade, il Signore (Vishnu), chiamato Narayana, si incarnò e nacque da Devaki e da Vasudeva, come Krishna, al fine di ristabilire la legge divina dei Veda.  Solo se la Legge vedica è preservata, il suo spirito proteggerà la vita delle diverse classi di persone.

Ashtavakra Samhita

Tu non appartieni ai bramini, ai guerrieri né ad altra casta, tu non sei in alcuno stadio di vita, non sei nulla di ciò che i tuoi occhi possono vedere. Sei privo di attaccamento e di forma, il testimone di tutto - [dunque] sii beato, ora. Giusto e ingiusto, piacere e dolore appartengono soltanto alla mente e non ti riguardano. Tu non sei l'agente o il fruitore delle conseguenze [dell'agire]; tu sei sempre libero.

Tu sei l'unico testimone di tutto, completamente libero. La causa della sofferenza è nel ritenere il testimone qualcosa di diverso da questo. Finché sei stato ingannato dal nero serpente dell'opinione di te stesso, hai creduto stoltamente: "io sono colui che agisce"; ora dissetati col nettare dell'evidenza: "io non sono colui che agisce" e da subito sii felice. Brucia la foresta dell'illusione con il fuoco della conoscenza.

Mandukya Karika di Gaudapada

Mi inchino al Brahman che pervade l'universo con l'effusione della conoscenza, che pervade ciò che è mobile e ciò che è immobile, Colui che osserva tutto quello che può essere conosciuto nel mondo grossolano [durante lo stato di veglia], Quello per cui si sperimenta tutto ciò che nasce dal desiderio ed è illuminato dall'intelletto [durante lo stato di sogno], e che riposa nella Sua beatitudine e fa che tutti noi vediamo attraverso la Sua Maya, quello che, nei termini di Maya, è il Quarto [Turiya] e il supremo, immortale e non nato.

Turiya, il Sé dell'universo - che osserva i frutti della virtù e del vizio nel mondo grossolano, che conosce gli oggetti sottili creati dalla Sua intelligenza e illuminati dalla Sua luce e che riassorbe tutto questo gradualmente in Sé, e che abbandonata ogni differenziazione diviene privo di attributi – che possa Egli accordarci la Sua protezione.

श्रुति Śrūti

Brhadaranyaka Upanishad

Om! L'aurora è il capo del cavallo sacrificale; il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco onnipresente la sua bocca, l'anno il suo corpo. Il cielo è il dorso del cavallo sacrificale; l'atmosfera è la sua pancia, la terra il suo inguine; i punti cardinali sono i suoi fianchi, i punti intermedi le sue coste, le stagioni le sue membra, i mesi e le quindicine le sue giunture, i giorni e le notti le sue gambe, le costellazioni le sue ossa, le nubi le sue carni. La sabbia è il cibo che egli digerisce; i fiumi i suoi intestini, i monti il suo fegato e i suoi polmoni, le erbe e le piante la sua criniera; il sole che si leva è il davanti del suo corpo, dietro il sole che tramonta. Il lampo è il suo ringhio, il tuono lo scuotimento del suo corpo, la pioggia la sua orina, la voce della parola il suo nitrito.
Il giorno, che posa sull'oceano orientale, fu la coppa posta dinanzi al cavallo. La notte, che si trova sull'oceano occidentale, fu la coppa posta dietro al cavallo. Egli fu il Destriero che portò gli Dei, lo Stallone che portò i Gandharva, il Corsiero che portò i Demoni, e infine portò gli Uomini, come fa il Cavallo. Egli è di casa nell'oceano, dove si trova la sua stalla.

Maha Mrityunjaya Mantra

Ishavasya Upanishad

Il volto della Verità è nascosto da una maschera d’oro; rimuovilo, oh Conoscitore, perché trionfi la verità, perché sia veduto. O Conoscitore, o Veggente, o Ordinatore, Sole Illuminante, o Padre delle creature, apri i tuoi raggi divini, trattieni il tuo ardore, affinché io possa conoscere il tuo volto benedetto. L'essere luminoso che abita in te, quello io sono.

Sri Adi Shankara

Shankaracharya

Vivekacudamani

“Il gran gioiello della discriminazione”  
Istruzione sul discernimento spirituale

1. Rendo onore al sadguru Govinda la cui natura è suprema beatitudine, il quale si rivela mediante l’insegnamento vedantico che è di là dal linguaggio e dalla percezione mentale.
2. Per tutte le creature viventi non è agevole avere una nascita umana, in particolare ottenere un temperamento maschile, più difficile è perseguire il sentiero della devozione vedica, più difficile ancora è acquisire la perfetta conoscenza delle Sacre scritture. Altresì è raro discriminare tra il Sé e il non-Sé e realizzare l’identità del Sé con Brahman. Questo tipo di liberazione perfetta è il risultato di meriti accumulato nel corso di innumerevoli nascite.

Soundarya Lahari, L'Onda della Bellezza

"L'Assoluto è senza forma, ma l'energia è femminile. Quando l'energia prende forma, è chiamata Madre. Madre è la potenza in movimento, che solleva in onde le acque calme dell'Assoluto." Swami Vivekananda

"Non c'è Shiva senza Shakti o Shakti senza Shiva. I due, per loro stessa natura, sono uno. Ciascuno di essi è coscienza e beatitudine." Arthur Avalon

"Shakti è l'energia primordiale latente,  indifferenziata e auto-cosciente, che tutto pervade, che si manifesta per creare l'universo dopo il diluvio o la grande dissoluzione (Mahapralaya). Questa Shakti non è diversa dalla coscienza (Cit), il loro rapporto è di inseparabile unità (Avinabhava Sambandha) come tra il fuoco e il calore, un soggetto e le sue caratteristiche, la parola e significato ecc. In altre parole, uno non esiste senza l'altra." 

Advaita Sadhana

Antologia degli insegnamenti di
Sri Chandrasekharendra Saraswati Swamigal.
Commento del Vivekacudamani di Shankara. [PDF]

Con grande compassione il nostro Acharya Shankara Bhagavatpada ha tracciato il Saadhanaa-kramaM (il metodo della Sadhana) per raggiungere lo scopo dell’Advaita. Tutto ciò che ha fatto è in accordo con la Sruti (i Veda). Il corpo dei Veda ha una testa, le Upanisad. Esse sono chiamate ‘shruti-shira’, che significa ‘la testa della Sruti’. L’alto edificio della Sadhana costruito per noi dall’Acharya è fondato sulle Upanisad.
Egli ha tracciato un programma chiamato ‘Saadhana-chatushhTayaM’ (la Sadhana in quattro fasi). Nel suo monumentale commento al Brahma Sutra fin dall’inizio dice: 'nitya-anitya-vastu-vivekaH' si deve discriminare tra ciò che è reale e cioè che non è reale e nomina la quattro fasi del cammino.
Come il Sutra-Bashya è il culmine dei commenti scritturali, il Viveva-Chudamani è la massima espressione delle opere dette prakarana. In questo testo è data una perfetta definizione delle quattro fasi del Saadhana-chatushhTayaM.

La filosofia di Shankara

La filosofia di Shankara

Questo articolo esamina l'Advaita Vedanta classico di Shankaracharya e alcune questioni basilari di epistemologia e soteriologia. La presentazione rimarrà fedele a ciò che Shankara ha effettivamente detto ed eviterà interpretazioni speculative del suo pensiero, come ad esempio le forme dell'Advaita Vedanta che possono significativamente essere adattate in modo da soddisfare le esigenze degli occidentali moderni. Per la maggior parte ci si riferisce ai commenti di Shankara sul Brahma Sutra e Brhadaranyaka Upanishad, forse i suoi lavori più importanti, con alcuni riferimenti anche ai suoi altri scritti. 

Ascolto, riflessione e meditazione nella pratica dell'Advaita Vedanta

L'analisi mentale dell'Upadesha (insegnamento) attraverso la riflessione costante è l'esercizio detto Manana. Successivamente, quando non esiste più necessità e scopo per ulteriore analisi e discussione, si procede con NidhidhyAsana, che è lo stato in cui la mente è concentrata esclusivamente nell'identificazione con l'atman- tattva, su cui si è giunti a una perfetta chiarezza, e la mente non è scossa da alcun movimento.

La Mente e la funzione dei Mahavakya.

La mente, che è chiamata 'organo interno' (antaHkaraNam), è indicata con quattro nomi in base alle rispettive funzioni: manas, buddhi, chittam e ahamkAra. La funzione del pensiero è conosciuta come manas, che designa l'attività della mente ordinaria, come comportamento, esperienza di piacere, repulsione, reazione e relazione. Quando viene presa una decisione, appellandosi al senso etico, alla verità, al discernimento, è detta buddhi o intelletto. La funzione di memorizzare le esperienze e le informazioni, e di compiere operazioni formali, è chiamata chittam. Il senso dell'io è ahamkAra. 

La Via iniziatica alla Non Dualità

Advaita Satsang

Meditazione con Udai Nath

Satsang e percorsi individuali

Religione di Harappa

Tremila anni prima dell'apparizione del Devīmāhātmya, una civiltà avanzata come quella dell'Egitto e della Mesopotamia sorse sulla vasta pianura alluvionale dei fiumi Indo e Sarasvatī e prosperò in splendore tra il 2600 e il 1900 AC. Le sue città di Harappa e Mohenjo-daro erano tra le più grandi al mondo, e ci sono numerose prove archeologiche che l'India dell'Età del Bronzo sia stata culturalmente ed etnicamente diversa com'è oggi. Come nella maggior parte del mondo antico, diversi culti religiosi probabilmente coesistevano, più o meno pacificamente. Poco prima dell'ascesa della civiltà Harappan, o dell'Indo-Sarasvatī, negli insediamenti degli altipiani nel Belucistan, a nord e a ovest della Valle dell'Indo, le culture pre-Harappa consideravano la Dea Madre, o alcune dee, più o meno allo stesso modo degli altri popoli del Neolitico nel Medio Oriente.
Prevedibilmente per una società agricola, le immagini della dea pre-Harappan mostrano temi relativi alla fertilità e ai cicli della natura. Realizzate in argilla cotta, le statuine condividono caratteristiche comuni, come capelli riccamente elaborati, collane ornate, facce simili a uccelli, fianchi larghi e seni pieni. Spesso rappresentano la forma femminile dalla vita in su, quasi a suggerire una dea della terra che emerge dal suolo. Alcune, con le mani sul petto, suggeriscono una madre benevola e nutriente. Altre, spesso incappucciate e con visi truci, talvolta a forma di teschio, suggeriscono una dea del mondo sotterraneo che è il guardiana dei morti e forse del seme interrato.
I loro macabri volti e le loro bocche distorte sembrano concepiti per evocare il terrore, ed è facile immaginare la dea che rappresentavano come un prototipo di Kālī. Spesso le immagini della terribile dea sono state trovate in connessione con quelle del toro infuriato, selvaggio e distruttivo. Questa associazione può esprimere l'idea di forze infauste o malvagie che vengono sottomesse da una divinità superiore, e non è impossibile che questa dea prefiguri Durgā, che uccide il demone bufalo nell'episodio centrale del Devīmāhātmya.
Più significativamente, la rappresentazione delle dee in aspetti graziosi o terribili è una duplice distinzione che è passata nella Valle dell'Indo e continua a caratterizzare la religione indù fino ai giorni nostri.
Le immagini pre-Harappan conducono direttamente alle icone successive trovate nelle città di Harappa e Mohenjo-daro, che sembrano essere state centri di culto della dea. Migliaia di figurine femminili in terracotta, che superano il numero di quelle maschili di sette volte, mostrano gli stessi fianchi larghi e il seno pieno per esprimere il tema della fertilità femminile e del potere creativo. Sebbene molti rappresentino donne normali impegnate in lavori domestici, quelle identificate come dee condividono un'iconografia fissa. Nude ma agghindate con cinture, gioielli e copricapi elaborati, si abbinano a un'altra figura che si trova spesso incisa sui sigilli di pietra di Harappan. I sigilli, in numero di migliaia, recano incise delle iscrizioni brevi, insieme a scene di animali, animali mitici , piante, alberi, figure antropoidi e divinità. Queste immagini offrono la più ricca fonte di informazioni - e speculazioni - sulla religione degli Harappa. I motivi pervasivi del pipai (Ficus religiosa) e del banyan (Ficus indica) suggeriscono che alberi o boschetti sacri potrebbero essere stati i luoghi principali dell'osservanza religiosa.
I manufatti della valle dell'Indo spesso mostrano scene di adoratori con vasi d'acqua che si inchinano davanti a un albero, e sia i pipai che i banyan sopravvivono nella successiva mitologia indù come simboli di fertilità e protezione.
La divinità che è raffigurata sotto un arco di foglie di pipai sui sigilli di Harappa corrisponde a quella raffigurata nelle statuette di terracotta. Sui sigilli di Mohenjadaro, una divinità appare assisa tra le fronde di un albero di pipai.
Idue tipi potrebbero essere variazioni regionali della stessa dea, o forse essere dee distinte. In entrambi i casi, questa concettualizzazione arcaica sembra vivere in un epiteto di Tārā, un aspetto della Devī che assomiglia molto a Kālī; è chiamata Vṛkṣamadhyanivāsinī ("colei che dimora tra gli alberi").
Un sigillo di Mohenjo-daro illustra un adoratore che si prostra davanti alla dea sull'albero, con sette figure vestite in modo identico in piedi in primo piano. Alcuni studiosi considerano questo gruppo come sette dee sorelle, i cui lineamenti a forma di uccello le collegano alle figurine della fertilità del Neolitico. Torneranno più tardi nella nostra storia.
Una dea che combatte con una tigre appare su molti sigilli, che sembrano illustrare un mito particolarmente diffuso, ma altrove sconosciuto. Occasionalmente la sua mano è alzata in segno di rassicurazione, forse un primo accenno dell'abhayamudrā, il gesto che allontana la paura, tipico dell'iconografia indù.
Alcuni sigilli raffigurano una divinità maschile barbuta su una piattaforma bassa, seduta in una posizione yoga con le ginocchia divaricate e i talloni che si toccano. Indossa un copricapo di corna ricurve di bufalo acquatico, coronate da tre foglie di pipai, combinando motivi umani, animali e vegetali. Due sigilli superstiti ritraggono questo dio con tre facce che guardano a sinistra, a destra e in avanti, simile alla Trimūrti del successivo Induismo, che raffigura Brahmā, Viṣṇu e Śiva come le funzioni creative, conservatrici e distruttive del Dio supremo. Sul cosiddetto sigillo di Paśupati di Mohenjo-daro, la figura con la testa tripla è raffigurata con il fallo eretto e circondata da animali selvatici: un rinoceronte, un bufalo acquatico, un elefante, una tigre e due antilopi. Paśupati, il signore delle bestie, è un epiteto del dio indù successivo Śiva, e dopo decenni di dibattito gli studiosi non trovano accordo sul fatto che questo antico sigillo rappresenti Śiva in una forma prototipica. Come le macchie d'inchiostro di Rorschach, gli artefatti di Harappa suscitano interpretazioni molto diverse che sono, a questo punto, solo congetturali. Detto questo, è evidente che la religione degli Harappa rappresenta un continuum del precedente e diffuso culto pervasivo della divinità femminile, collegato alla terra e a tutte le forme di fertilità. Certamente alcune caratteristiche di esso persistono nell'induismo successivo.

Dee nella religione vedica

Gli studiosi europei del XIX e primo XX secolo ipotizzarono che le tribù indoeuropee del nord migrarono nel subcontinente indiano e fondarono la civiltà indiana intorno al 1500 AC. Si scoprì all'inizio del XX secolo che esisteva già una grande civiltà urbana nella Valle dell'Indo mille anni prima del presunto arrivo degli Àrya indoeuropei, e la teoria fu rivisitata per presentare gli Àrya come invasori che conquistarono il popolo di Harappa. Non ci sono prove archeologiche a sostegno di tale conquista, e l'idea stessa è nata da una lettura errata dei testi vedici.
A un esame più attento, l'evidenza testuale suggerisce in realtà una presenza Àrya molto più precoce nella Valle dell'Indo del 1500 aC. Il Saṁhitā del Ṛgveda, composto da oltre mille inni redatti in centinaia di anni, è il più antico testo sacro dell'India. È stato pensato dagli studiosi occidentali che abbia raggiunto la sua forma attuale tra il 1500 e il 1200 AC, sebbene gli indù abbiano sempre sostenuto che è molto più antico. Ci sono prove convincenti di questa affermazione negli stessi inni vedici: essi descrivono un paesaggio che è scomparso centinaia di anni prima che gli inni fossero composti. Questi inni descrivono la regione dell'Indo-Sarasvatī come la terra dei sette fiumi. Parte di quella regione è conosciuta oggi come il Punjab (dal sanscrito pañca ap, "cinque acque").
Dei sette fiumi, il divinizzato Sarasvatī fu celebrato come superiore a tutti gli altri in maestà e potenza (ṚV 7.95.2). Poiché i dati scientifici moderni confermano che il Sarasvati incominciò a prosciugarsi nel 1900 AC, gli inni che esaltavano la sua gloria devono risalire a prima di allora, quando il fiume sacro scorreva ancora abbondantemente e la civiltà prosperò lungo le sue rive. Se gli Àrya fossero arrivati sulla scena solo intorno al 1500 aC, non avrebbero avuto alcuna conoscenza dell'antica magnificenza del Sarasvati, né avrebbero scelto di deificare un fiume morente o già scomparso. Una gigantesca catastrofe ambientale, non un'invasione, portò al collasso la civiltà di Harappan.
Come i popoli Àryani, o vedici, si adattino a questo quadro, se è vero, è un problema che archeologi e storici devono ancora risolvere. L'evidenza dei testi vedici, a cui torneremo, descrive la graduale scomparsa dei Sarasvati sotto le sabbie del deserto e suggerisce un'interazione tra le popolazioni vediche e non vediche e le loro religioni.

Si è soliti accettare che la religione vedica patriarcale individuò in cielo i suoi dei e si stabilì attorno a un culto sacrificale diretto a un pantheon di divinità per lo più maschili, allo scopo di mantenere l'ordine cosmico. Indra, il dio principale, esercitava il potere del fulmine con cui scuoteva tutti i cieli. Era il signore terribile che faceva piovere sulla terra la vita. Altre divinità, per lo più maschili, avevano funzioni sovrapposte associate ai fenomeni atmosferici del vento e delle tempeste e al succedersi del giorno e della notte. Sūrya, il dio del sole, era venerato come fonte di calore e luce, sebbene fosse annunciato ogni giorno dalla bella Uṣa, dea dell'alba. Sulla terra, la luce celeste esisteva come fuoco, divinizzato come Agni, che distribuiva offerte terrestri agli dei superiori. La parola sanscrita per dio, deva, deriva da una radice verbale che significa "splendere" e implica il collegamento della luce con i concetti di sovranità e trascendenza.
I primi strati di inni Ṛgvedici dovrebbero riflettere caratteristiche comuni alla matrice culturale indoeuropea, ancora più antica, da cui emersero gli Àrya. La divinità suprema indoeuropea era il dio celeste Dyaus, il cui nome deriva dalla stessa origine della parola deva. In India, Dyaus aveva già perso la sua supremazia in favore di Indra nei primi tempi dei Veda, e il suo nome significava poco più della luminosità del cielo fisico. Non così in altre culture indoeuropee, dove Dyaus Pitar, il padre del cielo, sopravvisse fino ai tempi classici come il dio supremo Zeus Pater nella religione ellenica e come Giove nel pantheon romano. In India, il padre del cielo, Dyaus, e la madre terra, Pṛthivī, furono originariamente intesi come partner procreativi, ma da una relazione iniziale di parità Pṛthivī presto conquistò il dominio su Dyaus. Il Ṛgveda li collega molto spesso come Dyāvāpṛthivī, un composto grammaticale che significa "cielo-terra" concepito come una singola entità di genere femminile, e alcuni inni presentano anche Dyaus senza Pṛthivī come femminile. Questo processo suggerisce una drammatica trasformazione della religione fondamentalmente patriarcale indo-europea da parte di una forte tradizione della dea. In realtà, la presenza di vari tipi di dee nel Ṛgveda e l'onore accordato ad alcune di loro solleva questioni importanti circa le loro origini e il loro significato. Il periodo vedico arcaico vedeva già una molteplicità di divinità con attributi simili e funzioni interscambiabili, e tale ricchezza indica già la presenza e l'intreccio di tradizioni diverse.

È importante ricordare che gli inni vedici furono composti nel corso di molti secoli da membri di clan sacerdotali Àryan genericamente imparentati e non sempre amichevoli. Anche se nessun modello coerente di sviluppo emerge dall'esuberante, sovrapposta, e talvolta contraddittoria profusione di dei e dee, la tendenza era verso la coalescenza di divinità che assomigliavano strettamente l'una all'altra.

Le divinità Ṛgvedic appartengono a quattro grandi categorie: le deboli, poco definite consorti degli dei, che prendono il nome dalle loro controparti maschili; le personificazioni delle qualità, espresse da nomi femminili astratti; le divinità con una base nel mondo naturale; e le dee che erano potenti per proprio diritto. Le dee che personificarono delle astrazioni espresse con nomi femminili portavano nomi come Dhiṣaṇ ("intelligenza"), Śraddhā ("fede") e Nirṛti ("decadimento") e rappresentavano sia qualità positive che negative . Numerosi inni Ṛgvedici documentano il processo attraverso il quale tali divinità nacquero dall'osservazione dei fenomeni fisici e divennero quindi astrazioni filosofiche e dee personificate. Per esempio, śrī Śrī ("luce, luminosità, splendore") appare prima come la gloria onnicomprensiva attribuita ad Agni, Rudra, Uṣas e altre divinità. Solo molto più tardi Śrī emerse a sua volta come una dea personificata che ben presto si unì a Lakṣmī. Inizialmente, Lakṣmī ("fortuna, prosperità") era probabilmente una divinità agricola non ariana; e la sua controparte negativa, Alakṣmī ("disgrazia"), suggerisce un'ulteriore connessione con la dea neolitica più antica e dualistica. Lo Śrīsūkta, un inno aggiunto al Ṛgveda in tempi tardi, documenta la fusione di Śrī e Lakṣmī in una singola dea, la cui propiziazione garantisce protezione da Alakṣmī, il suo aspetto oscuro.
Alcuni inni vedici celebrano il potere femminile nella bellezza della notte, della foresta, dei fiumi e della terra, personificati come dee che, per la maggior parte, hanno un ruolo minore nel pantheon. Un'eccezione è Usa, cantata frequentemente ed estaticamente, dea dell'alba, che nei precedenti tempi vedici figurava in primo piano tra le divinità celesti. Allo stesso modo, il fiume divinizzato Sarasvatī era considerato una divinità potente, decantata ogni anno per dare nuova vita alle terre coltivate e sostenere le città e i villaggi lungo le sue rive.
Un inno singolarmente bello (ṚV 10.146) glorifica Aranyānī, il cui nome (da araṇya, "foresta") la identifica come guardiana del mondo selvatico e madre delle bestie e di tutti gli esseri silvestri. Questa inafferrabile Signora della Foresta frusciava dolcemente come il tintinnio dei campanelli, profumata, benevola e protettiva, portarice di abbondanza di cibi non coltivati. Uccideva solo nemici letali, intesi dal commentatore del XIV secolo Sāyaṇa a indicare le tigri. Supponendo un'interazione Harappan-Vedica, questo singolare inno ad Aranyānī potrebbe essere rivolto alla divinità che sconfigge le tigri, riprodotta sui sigilli della Valle dell'Indo? Qualunque sia la realtà storica, la caratteristica distintiva degli inni della dea del Rgveda è la loro gioiosa meraviglia alla vista della natura luminosa. Migliaia di anni dopo, le loro parole evocano ancora gli stessi sentimenti ineffabili che devono aver risvegliato i cuori dei veggenti che li hanno composti.
Tra le poche divinità femminili che erano potenti di per sé, la dea vedica primaria era Aditi, che gli inni esaltano ripetutamente come la Grande Madre. In quello che si crede sia il primo strato di inni Ṛgvedici, appare completamente formata e supera ogni specifico fenomeno naturale da cui potrebbe essere sorta. Scrivendo alla fine del XIX secolo, l'indologo Max Müller descrisse Aditi come uno delle più antiche divinità Àriane, anche se studiosi più recenti collocano le sue origini "in gran parte avvolte nella religione pre-vedica".
Gli inni vedici lodano ripetutamente Aditi come una dea universale e astratta che rappresenta la sconfinata distesa della creazione fisica e di tutto ciò che contiene. Secondo un inno: "Aditi è il cielo; Aditi è l'atmosfera; Aditi è la madre, il padre, il figlio / Tutti gli dei sono Aditi e i cinque [Àriani] clan; Aditi è ciò che nasce; Aditi è ciò che nascerà "(ṚV 1.89.10). Il suo nome sanscrito significa "senza limiti" e parla di unità e vastità incommensurabili.
Nei tempi successivi di Veda, Aditi raccoglie una serie di attributi riguardanti sia la trascendenza che l'immanenza. Da un lato, è l'Uno impersonale, illimitato e imperituro, che comprende l'esistenza e la non-esistenza allo stesso modo. D'altra parte, lei è la madre e la protettrice dell'universo, che nutre e sostiene il mondo e custodisce l'ordine cosmico (ṛta). Assolutamente libera, può concedere la liberazione a coloro che si rifugiavano in lei.
Una descrizione completa dell'unica Dea suprema è formulata in un inno del Ṛgveda noto come Devīsūkta ("Inno della Dea", 10V 10,125). Le sue otto strofe, attribuite al figlio del saggio Ambhṛṇa, sono il veicolo attraverso il quale la dea Vāk, identificata con Sarasvati e Aditi, si rivela. Le espressioni in prima persona sono rare nel Ṛgveda, ma qui la Devī, che è la coscienza suprema, proclama che lei opera attraverso tutti gli dei e si rivela in molteplici modi. In lei vivono tutti coloro che vedono, respirano e ascoltano ciò che viene detto, non sapendo di dimorare in lei, la madre di tutti, che governa e sostiene l'universo. Così vasta è la sua grandezza che, pervadendo il cielo e la terra, trascende i loro limiti. Il Devīsūkta ha un'importanza incalcolabile, poiché è considerato il punto di origine del Devīmāhātmya.

Tarda epoca vedica.

Sulla base delle prove dei testi vedici, la divisione tra il primo e il tardo periodo vedico coincide con l'esaurimento del fiume Sarasvatī. Al primo periodo, prima del 1900 AC, appartengono gli inni o Saṁhitās del Ṛgveda e Sāmaveda; al periodo successivo appartengono i Samhitā di Yajurveda e Atharvaveda, insieme ai testi vedici più tardi conosciuti come i Brāhmaṇa, gli Āraṇyaka e le Upaniṣad.
Un radicale cambiamento religioso avviene raramente nel vuoto, e le circostanze alterate dopo il crollo delle civiltà dell'Indo-Sarasvati avviarono una trasformazione graduale e complessa della vecchia religione vedica nel moderno induismo.
Storicamente, l'ascesa della religione Brāhmaṇica sembra coincidere con il collasso economico di Harappa e la scomparsa della scrittura della valle dell'Indo, attorno al 1700 aC.
I trattati teologici noti come Brāhmaṇa affrontano le preoccupazioni pratiche della classe sacerdotale e la corretta esecuzione dei riti sacrificali nel contesto posturbano. Inoltre, i Brāhmaṇa documentano il progressivo inaridimento del fiume Sarasvatī tra il 1900 e il 1300 AC. Un tempo più potente dell'Indo e creduto di origine celeste, era noto che il Sarasvati fluiva sulla terra dall'Himālaya fino all'Oceano Indiano. Gli inni vedici e i Brāhmaṇa alludono in modo analogo ai sacrifici compiuti lungo le sue rive e, con la scoperta di altari di fuoco tipicamente indo-europei nella città di Kalibangan, sono prove convincenti per una presenza vedica lungo il fiume Sarasvatī nel terzo millennio AC.
Molto prima che Gaṅgā prendesse la preminenza come il fiume più sacro dell'India, il Sarasvatī, il cui nome significa "il fiume che scorre", ottenne quell'onore. Comprensibilmente, la fertilità e la purificazione devono essere state tra le sue prime caratteristiche, e anche il Ṛgveda la esalta non solo come una grande inondatrice, ma anche come la brillante dea dell'intelligenza, che illumina ogni pensiero veritiero (Ṛ V 1.3.10-12).
Con l'inizio del prosciugamento, il Sarasvatī appare nei Brāhmaṇa meno spesso come un fiume sacro e sempre più come una dea personificata. Nel V secolo AC, Yaska notò che nel Nirukta, il più antico commentario superstite dei Veda, il flusso di Sarasvatī verso il mare poteva rappresentare figurativamente il flusso del pensiero nel vasto, splendente mare della coscienza universale.
Inoltre, i Brāhmaṇa identificano ripetutamente Sarasvatī con Vāk, la Parola creativa personificata nella divinità Ṛgvedica che proclama il proprio potere e trascendenza universale nel Devīsūkta. In quanto tale, Sarasvatī-Vāk rappresenta il potere intelligente della creazione, e la sua vasta rete di associazioni successive, incluso il suo ruolo più recente e attuale come consorte o potere di Brahmā (śakti), perpetua la sua reputazione fino ad oggi come dea benefica della conoscenza e delle arti.
Riflettendo la crescente popolarità di altre divinità femminili, i Brāhmaṇa introducono molte nuove dee sconosciute ai Saṁhitā Vedici. La tendenza di divinità simili a raggrupparsi, indica il contatto e la mescolanza di diverse religioni, probabilmente nel periodo dei nuovi insediamenti di villaggi nelle aree periferiche come direttrici del diffuso abbandono di città e paesi, tra il XIX e il XVII secolo , specialmente lungo il fiume Sarasvatī.
Seguendo i Brāhmaṇa il canone Vedico, i successivi araṇyaka ("trattati di foresta") riflettono allo stesso modo la vita nel nuovo ambiente post-urbano, e il nome di questa classe di testi in particolare si riferisce all'emergente tradizione ascetica dei veggenti che si ritiravano nella foresta per praticare le discipline spirituali. I Veda raggiunsero il compimento con la composizione delle principali Upaniṣad, le prime delle quali sono coeve ai tardi Brāhmaṇa e agli Āraṇyaka.
Le Upaniṣad sono a volte chiamate Vedānta, a causa della loro posizione fisica alla fine (anta) dei Veda e al culmine della conoscenza spirituale che rivelano. Concentrandosi sull'esperienza mistica, le Upaniṣad seguono il percorso degli ultimi inni vedici che si erano già avventurati coraggiosamente verso la conoscenza di una realtà superiore, non teistica. La parola upaniṣad significa "sedersi vicino" ed evoca immagini di discepoli che circondano un veggente illuminato, che affronta le domande fondamentali dell'esistenza e impartisce le risposte rivelate nello stato di meditazione più profonda. La riflessione sulla caducità della vita ha portato i veggenti Upaniṣadici oltre il tempo e lo spazio, fino alla realtà eterna e immutabile chiamata Brahman, e nelle profondità silenziose del loro essere hanno scoperto che il Sé interiore (ātman) e la divinità suprema (Brahman) sono uno.
La fine di quel periodo oscuro e instabile che vide la creazione dei Brāhmaṇa, degli Âraṇyaka e delle prime Upaniṣad, l'Età del Bronzo incominciava a sfumare impercettibilmente nell'età del ferro, e una nuova cultura nacque dai resti sbiaditi del magnifico passato dell'India. Come piccoli domini indo-Àriani crebbero in regni più grandi, un nuovo ordine sociopolitico si evolse lentamente. Nel terzo secolo AC, gli Àrya governarono l'India, e il sanscrito divenne la lingua dominante della politica, della cultura e della religione. Durante questo periodo, l'induismo si ramificò contemporanemente in diverse direzioni.

Induismo post-vedico

Basandosi sulla conoscenza vedica, i filosofi svilupparono le sei scuole di pensiero ortodosse, i darsana ("modi di vedere"), che rappresentavano i loro insegnamenti sotto forma di dichiarazioni aforistiche chiamate sūtra. Tra i darsana, la filosofia dualistica Sāṁkhya, attribuita a Kapila, offriva un'indagine razionale sulla natura della realtà e della mente e forniva una base filosofica per lo Yoga di Patañjali, o la scienza della meditazione come mezzo per raggiungere la coscienza ultima.
La filosofia del vedanta non-duale (advaita) fu sistematizzata nel Brahmasūtra (o Vedāntasūtra) di Bādarāyaṇa, basato su insegnamenti Upaniṣadici riguardanti il conseguimento della conoscenza del Sé.
A partire dal 300 AC sorsero nuovi movimenti religiosi che enfatizzarono la devozione come percorso spirituale. La Bhakti, originariamente devozione o dedizione a una divinità personale, crebbe presto nell'atteggiamento di intenso amore che continua a caratterizzare le principali sette devozionali - Vaiṣṇava, Śaiva e Śākta - dell'Induismo teista moderno.
La setta Vaiṣṇava esaltava Viṣṇu, precedentemente divinità solare minore nel Ṛgveda, allo status di dio supremo. Divenne il guardiano universale dell'ordine morale (dharma), che assume una forma umana (avatāra, letteralmente "discendente") ogni volta che le condizioni mondane richiedono il ripristino della giustizia. I due grandi poemi epici dell'India, il Rāmāyaṇa e il Mahābhārata, celebrano a turno le incarnazioni di Viṣṇu come Rāma e Kṛṣṇa. Parte dell'immenso Mahābhārata, la Bhagavadgītā presenta gli insegnamenti di Kṛṣṇa come una sintesi onnicomprensiva del pensiero religioso e filosofico del II secolo aEV, e la sua universalità lo colloca tra le scritture indù più conosciute.
La setta Śaiva a sua volta elevò Śiva alla supremazia assoluta. In origine, Śiva poteva essere una divinità non-ariana, forse Harappa, assimilata intorno al II secolo aC al volatile dio Vedico della tempesta Rudra, forse di origine pre-vedica o addirittura non vedica. Per i Śaiva, è Mahādeva ("Grande Dio"), il signore degli yogi che incarna la rinuncia e distrugge l'ignoranza. È anche l'Assoluto trascendentale, il cui potere dinamico è personificato come Śakti, la consorte divina.
La tradizione Śākta riverisce la Divina Madre come il potere creativo universale, fonte onnipervadente del cambiamento interiore e identica alla realtà immutabile. Qui, Śakti non è la consorte di Viṣṇu o Śiva, come la vedono i Vaiṣṇava o i Śaiva, ma la loro origine, a cui loro e tutti gli altri dei sono subordinati. Il potere senza forma e incommensurabile che è Śakti può essere concettualizzato solo in relazione alla sua attività di creatrice, sostenitrice e distruttrice dell'universo. Di conseguenza, Śakti è Mahādevī, la Grande Dea, adorata in tutta l'India in varie forme, benefiche e fantastiche, tra cui le potenti Durgā e Kālī.

Sir John Woodroffe, che scrisse le sue autorevoli ricerche sulla religione Śākta sotto il nome di Arthur Avalon, osservò che il culto di Śakti conserva le caratteristiche essenziali dell'antica e diffusa religione della Dea Madre, che fu chiamata con molti nomi e venerata in molte forme dai popoli del remoto passato.
La pratica religiosa Śākta è principalmente, sebbene non esclusivamente, tantrica, e le due tradizioni si sovrappongono ma non coincidono completamente. Il Tantra, che esiste nelle forme Vaiṣṇava, Śaiva e Śākta, è definito più ampiamente come un complesso di pratiche antiche al di fuori della sfera vedica. Il tantra si è evoluto in un nondualismo filosofico altamente sofisticato che vede il mondo come la proiezione e la trasformazione di Śakti, il principio creativo divino. Questa idea è inerente alla parola Tantra stessa, che deriva da una radice verbale che significa "estendere, diffondere, essere diffusa". Nel senso intransitivo, ciò che si sta estendendo è la stessa realtà divina, in un continuo senza interruzioni che comprende sia la trascendenza che immanenza, infinito e finitudine, essere e divenire, spirito e materia.
Nel senso transitivo, quello che il Tantra estende è la conoscenza della realtà divina. Di conseguenza, la parola si applica a una classe di scritti sacri, chiamati anche Tantra o Āgama. Di ignota paternità e età controversa, si ritiene che i principali Tantra non siano antecedenti al XII o XIV secolo, anche se le pratiche che registrano hanno radici nel periodo pre-buddhista, circa duemila anni prima.
La filosofia nondualistica che presentano è basata sulle Upaniṣad, anche se il Tantra rimane separato dai sei darśana della tradizione ortodossa Brahmāna. Con la pratica spirituale (sādhana), il Tantra mira all'unione con il Divino. Nella sua forma Śākta, richiede una rigida disciplina, la purificazione rituale e la devozione alla Divina Madre. Paradossalmente, gli strumenti usati per superare i limiti del corpo, della mente e dell'intelletto sono il corpo, la mente e l'intelletto stessi. L'obiettivo è quello di liberarsi dal ciclo di nascita, morte e rinascita, che si ripetono sempre, coltivando la libertà dal desiderio e il distacco dagli oggetti della percezione sensoriale. In definitiva, è la conoscenza (jñāna) che conduce alla liberazione.

Con l'impeto del teismo devozionale nel IV e V secolo, i Purāṇa emersero come una nuova classe di letteratura sacra. La parola purāṇa significa "antico", e i testi presentano tipicamente una storia altamente mitizzata dell'universo attraverso successivi cicli cosmici. Mentre i Purana crescevano attraverso l'assorbimento delle storie e dei miti locali, le tradizioni popolari non-Àriane entravano nel prestigioso regno della letteratura sanscrita come parte del processo in corso di assimilazione che ha segnato la religione indiana da tempo immemorabile. Attraverso miti e leggende vivaci, i Purana davano accesso popolare alle verità astratte dei Veda e degli Upaniṣad e, così facendo, armonizzavano i percorsi di jñāna e bhakti: di conoscenza spirituale e devozione.

Nel quinto o sesto secolo dC, l'apparizione di un testo singolare all'interno della letteratura puranica segnò un momento definitivo nella storia religiosa indiana. Il Devīmāhātmya, che è il testo principale della tradizione di Shākta riuniva molti e diversi filoni di miti indiani, pratiche di culto e filosofia
ampi almeno quattro millenni e creava un grande inno di gloria che proclamava una visione totalizzante della Grande Dea. La rivelava come Madre onnipotente e al contempo compassionevole; era allo stesso tempo origine di questo universo discutibile e presenza protettiva e guida, infine, era lei a dispensare la conoscenza suprema e la liberazione.
Dall'India nord-occidentale, il Devīmāhātmya si diffuse rapidamente verso est fino al Bengala, dove divenne noto come Candì. Dal nono secolo DC si diffuse in tutto il subcontinente meridionale sotto il titolo di Śrī Durgāsaptaśatī ("Settecento Versi a Śrī Durgā ").
Il Devīmāhātmya occupa i capitoli da 81 a 93 del Mārkaṇḍeyapurāṇa. Nel tipico stile Purāṇico, il saggio Mārkaṇḍeya riferisce al suo discepolo Krauṣṭuki Bhāguri la storia del mondo attraverso le età cosmiche (manvantara). Quando Mārkaṇḍeya inizia il suo resoconto dell'ottavo manvantara, la Devī appare improvvisamente, diventando il punto focale dei capitoli che costituiscono il Devīmāhātmya, e poi svanisce altrettanto improvvisamente. La sua assenza da tutte le altre parti del Purāṇa e le brusche transizioni immediatamente prima e dopo il Devīmāhātmya indicano con probabilità che sia un'interpolazione di un redattore di scuola Śakta piuttosto che una parte del testo originale.
Inizialmente il testo sembra aver goduto di un'esistenza indipendente, e con tutta probabilità è sorto anche in modo indipendente. Probabilmente è stato trasmesso oralmente all'inizio, ma ed è stato trascritto poco tempo dopo.
La prima letteratura puranica appartiene al periodo di transizione da una cultura orale a una cultura scritta, e il Devīmāhātmya esibisce la tipica formula ripetitiva coerente con lo stile bardico del tardo periodo prescritturale.
Allo stesso tempo, il testo è una compilazione e sintesi di miti e tradizioni molto più antiche, abilmente integrate in una singola narrazione, in cui si ritrovano miti Vaiṣṇava, Śaiva e fonti tribali indigene, intrecciati con immagini
Harappa e elementi vedici, rimodellati per affermare la supremazia e la gloria assolute della Devī.
A connettere i miti è una trama, raccontata da Mārkaṇḍeya, di un re, un mercante e un saggio, chiamato Medhas, che diventa il narratore dei tre miti che descrivono le gesta della Devī nel vincere le forze che minacciano l'ordine universale, personificate in demoni chiamati asura, daitya o dānava.
Un mito non dovrebbe essere considerato una finzione semplicemente perché non descrive un evento storico. Come il filosofo platonico Sinesio di Cirene afferma: "I miti sono cose che non sono mai accadute, ma sempre sono".
In effetti, un mito illustra verità sfuggenti che sono difficili da esprimere con strumenti più convenzionali, proprio perché si avventura oltre il regno dei fatti per entrare nel regno del significato. Aperto a interpretazioni multiple, un mito è prezioso come finestra attraverso cui la propria esperienza del mondo
può essere compresa. Attraverso il simbolismo, scandaglia i livelli più profondi della psiche umana, e in altri tempi il mito può aver avuto il ruolo di antica forma di psicologia. Il mitologo Joseph Campbell ha identificato le quattro funzioni del mito come ispirazione di timore reverenziale, spiegazione dell'origine e della natura del cosmo, conservazione dell'ordine sociale e, in particolare, di risveglio del potenziale spirituale.

Troviamo tutte e quattro le funzioni all'opera nel Devīmāhātmya.
Le tre narrazioni mitologiche del Devīmāhātmya sono allegorie dell'esperienza esteriore e interiore.
Esteriormente, gli asura simboleggiano il caos o l'adharma che minaccia la stabilità cosmica o il dharma.
Interiormente, simboleggiano l'ignoranza basata sull'ego che affligge la condizione umana. Gli dei e la Devî onnipotente nei suoi molti aspetti rappresenta la luce e la verità, e i loro scontri con gli asura simboleggiano le lotte interne che gli esseri umani affrontano quotidianamente. Si rifletta quindi sui miti, spesso cruenti, i cui dettagli rivelano una sottostante saggezza psicologica e spirituale.
[...]

[tratto e adattato da: In Praise of the Goddess, The Devīmāhātmya and Its Meaning - di Devadatta Kālī]

GORAKHNATH E LA TRADIZIONE NATH

Goraksha Sataka

La Centuria dei Versi di Gorakhnath

Om! Incomincia la centuria di Goraksha sull'Hata Yoga!
1. Mi inchino al venerabile Guru Matsyendranath, supremo bene, incarnazione della gioia; la cui semplice prossimità trasforma il corpo in pura coscienza e beatitudine.
2. Colui che, in virtù della paatica dell'adhdrbandha e delle altre tecniche posturali, illuminato dalla luce della coscienza, è lodato come Yogi e quale essenza e misura del tempo, degli yuga e dei kalpa, Colui in cui il Signore, oceano di conoscenza e beatitudine, ha preso forma, Colui che è superiore a tutti gli attributi qualitativi, manifesti e immanifesti, questi, Sri Minanath, io saluto devotamente
3. Avendo salutato con devozione il proprio Guru, Gorakhnath descrive la suprema conoscenza, ricercata dagli yogi, che conduce al Bene supremo.
4. Per il bene degli Yogi, Goraksa espone la Centuria di versi la cui conoscenza è il percorso sicuro verso lo stato supremo.
5. Questa è la scala che porta alla liberazione, per cui la mente è distolta dalle gioie dei sensi e si rivolge allo spirito, e con cui si sfugge la morte.

 

SIṢYĀ DARSAN

OṂ. Dall'eterno, l'Om emerge. Dall'Om, lo spazio [ākāś] emerge. Dallo spazio, l'aria emerge. Dall'aria, il fuoco emerge. Dal fuoco, l'acqua emerge. Dall'acqua, la terra emerge. La forma della terra è la bellezza della Dea. La forma dell'acqua è l'aspetto di Brahma. La forma del fuoco è la maya di Vishnu. La forma dell'aria è il corpo di Dio. La forma dello spazio è l'ombra del Suono [Nad] La forma del Suono emerge dall'eterno.

ABHAI MĀĀTRĀ JOG

OM. Il lignaggio dei Perfetti, la via della saggezza, la vera terra, la postura naturale e il respiro, la medicina filosofale del respiro yogico, la grotta dell'autocontrollo, l'astinenza come perizoma, il decoro come cintura di castità, l'unità trascendente come scialle di meditazione, l'unione, l'Uddhiana Bandh, il vero mudra, la virtù come abito, il perdono come cappello, l'ardore come supporto, l'introspezione come sacca delle elemosine, la pazienza come bastone, la discriminazione come spada, la pratica ascetica come ruota, il chakra radice come ciotola per l'acqua, la mente come acqua, l'elisir come cibo, la compassione, la meditazione del segreto, il discernimento come libro, la lingua come alchimia...

 

GORAKSHA VACANA SAMGRAHA.

Le istruzioni di Gorakhnath. 

1. Alcune persone desiderano la non dualità, altri desiderano la dualità. Ma non troveranno la Realtà, che è sempre e ovunque la stessa, diversa dalla dualità e dalla non dualità.
2. Se il Dio (Shiva) a cui tutto va è immutabile, pieno, indiviso, allora oh! La maya, la grande illusione, le false nozioni di dualità e non dualità.
3. Si dice che il supremo Brahman sia libero dall'esistenza e dalla non esistenza, libero da distruzione e generazione, al di là di ogni concezione.
4. Coloro che conoscono la Realtà lo conoscono come infinito spazio, vera conoscenza e beatitudine, ignoto al ragionamento e all'esempio, al di là della mente, dell'intelletto e delle altre funzioni.
5. Shakti è inerente a Shiva, Shiva è inerente a Shakti. Si deve riconoscere che non c'è differenza tra essi, come tra la Luna e la sua luce.
6. Quindi Shiva senza Shakti non potrebbe fare nulla. Ma dacché è unito al suo potere (shakti), è causa di tutte le forme sensibili.
7. Dotato di infinita Shakti, Shiva perpetua il manifestarsi di tutte le forme, eppure rimane uno solo, senza secondo, nella sua propria forma.

Adi Nath, Matsyendra Nath e Goraksh Nath. L'origine della tradizione Nath.

Da tempo l'India è riconosciuta come un importante centro della vita spirituale, che ha esercitato grande influenza sullo sviluppo di tutta la civiltà umana. La storia del paese è stata sempre segnata dalle storie di diversi grandi santi, Siddha e MahaYogi, che appaiono di volta in volta a guidare l'umanità verso ideali più alti, grazie all'esempio delle loro vite illustri.

Alcuni aspetti degli insegnamenti dei Nath

La posizione metafisica dei Nath non è monista né dualista. E' trascendente nel più vero senso della parola. Essi parlano dell'Assoluto (Nath), al di là delle opposizioni implicite nei concetti di Saguna e Nirguna, o di Sakara e Nirakara. Perciò, per essi il fine supremo della vita è realizzare se stessi come Nath e restare eternamente radicati al di là del mondo delle relazioni. La via per conquistare tale realizzazione è detta essere lo yoga, su cui investono molta energia. Sostengono che la Perfezione non si posa raggiungere con altri mezzi, se non con il sostegno della disciplina dello yoga.

I Siddha e la Via del Rasa

Un Siddha è qualcuno che si dice abbia raggiunto poteri sovrumani (Siddhi) o un Jivanmukthi, un liberato in vita. Il termine potrebbe anche essere tradotto come il raggiungimento della perfezione o dell'immortalità. Tale Siddha dotato di un corpo divino (divyadeha) è Shiva stesso (Maheshvara Siddha). È il perfetto, che ha superato le barriere del tempo, dello spazio e dei limiti umani. Un Siddha nella sua forma idealizzata è liberato da tutti i desideri (anyābhilāṣitā-śūnyam), colui che ha raggiunto un'identità impeccabile con la Realtà suprema.

Gorakh Bani

Il Gorakh Bani è un poema sapienziale di epoca medievale attribuito a Gorakhnath, che enuncia in forma poetica le tesi più esoteriche e profonde dello yoga delle origini.

E’ un testo dei più misteriosi e affascinanti della tradizione tantrica. E’ il Sabad, la parola spontanea dell’illuminato, lontana dai canoni scolastici del vedanta e dello yoga, invece enigmatica e fitta di allegorie ermetiche e di riferimenti alla vita del monaco errante, dello Yogi e del Siddha, e all’esoterismo medievale. Perciò è un testo complesso, anti-intuitivo, ironico, poi beatifico e estatico, a tratti oscuro, comunque veloce, ritmato e vivace. Si tratta di un orizzonte di meditazione che è molto radicale rispetto a quelli in voga ai nostri giorni. 

A differenza del sapere religioso, il sapere che Gorakh incarna non può essere indicato tra le definizioni che sono postulate dai dotti, dalle usanze e dai sacerdoti. Egli è un sapere incarnato e vivente, sempre nuovo, imperituro e rinnovato dall’esperienza che nel tempo è maturata nella coscienza degli yogi che hanno intrapreso lo stesso cammino, che si illuminerà con l’immagine già misteriosamente addotta da Eraclito. “Un fanciullo che parla dall’alto dei cieli”.

L’immagine del Fanciullo divino è universale, sempre ricorrente là dove si voglia indicare il Mistero divino incarnato. Questo Fanciullo non ha nascita, non ha nome, è un presente eterno, inviolato. Il Sabad, la parola dello Yogi che lo incarna, è la sua stessa voce, senza nome. Sabad è dunque la voce stessa della Verità, dell’esperienza del Supremo.

Testo e commento del Gorakh Bani sono pubblicati 

su Satsang.it

Satsang a Pesaro e su Zoom. Percorsi di Meditazione, Dialogo, Conoscenza Sacra.

 

 

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